1000 modi per morire: Günter Amendt

Qualcuno ricorderà il programma televisivo 1000 modi per morire, una serie che raccontava in modo pittoresco e demenziale alcuni decessi bizzarri avvenuti negli Stati Uniti. Si trattava di uno spettacolo disgustoso e attraente allo stesso tempo, come il buon vecchio junk food che utilizziamo come termine di paragone ogni volta che si deve parlare di qualcosa di americano: in realtà la trasmissione aveva anche uno scopo “pedagogico” (se così possiamo dire), perché ricamando sui lati negativi (probabilmente inventati) delle vittime tendeva a dare una “morale” a certe morti assurde, a farle sembrare come la naturale conseguenza di un atteggiamento moralmente censurabile o addirittura peccaminoso. Ah, il caro vecchio puritanesimo yankee che si nasconde sotto sembianze le più inaspettate.

Bene, devo ammettere di aver vissuto un momento stile “1000 modi per morire” quando qualche anno fa mi imbattei nella notizia della morte del sociologo Günter Amendt, teorico dell’antiproibizionismo, in un incidente automobilistico causato da un uomo sotto effetto di hashish…

I primi flash sulla tragedia (che coinvolse anche altre personalità della cultura tedesca, come l’attore Dietmar Mues e una scultrice) riportavano che il trentottenne alla guida del veicolo che non aveva rispettato il rosso fosse risultato positivo ai controlli anti-droga. La storia fece ovviamente il giro delle agenzie, anche se la maggior parte censurarono pudicamente il particolare, per rispetto della reputazione di uno dei padrini del Sessantotto tedesco, che nelle interviste sosteneva che «l’uso di droghe e sostanze psicoattive diverrà sempre più irrinunciabile nella nostra società globale», mentre nei suoi libri (noti anche in Italia) affermava che: 

«In un mondo in cui le droghe sono diventate, in ogni situazione della vita, un elemento ormai scontato della quotidianità, ci si domanda increduli come sia stato possibile che proprio la più innocua tra le sostanze psicoattive [scil. la cannabis], sia stata demonizzata in questo modo. Lo sbalordimento sarà uguale a quello che oggi proviamo rispetto al divieto di consumo per tè e caffè e alla conseguente applicazione repressiva all’inizio dell’epoca borghese» (Günter Amendt, No drugs, no future. Le droghe nell’età dell’ansia sociale, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 61).

Ironia della sorte, nello stesso volume Amendt sostenne pure che «è incontestabile quanto viene affermato da ricerche svolte sull’argomento: il conducente “fumato” guida in modo più prudente e fa meno incidenti gravi di quello che ha bevuto» (p. 122).

In realtà chi ha mai provato certe sostanza sa benissimo che la lentezza con cui si guida in quello stato non è meno pericolosa della velocità con cui si guida sotto l’ebbrezza alcoolica (dato che si è enormemente distratti da “fuochi d’artificio” visivo-tattili mentali).

In ogni caso, dopo i report iniziali è saltato fuori che il guidatore non sarebbe stato un drogato, ma un epilettico, e che si sarebbe rifiutato di rispettare il divieto di condurre veicoli imposto da chi lo aveva in cura. Per questo è stato condannato a (udite udite) tre anni e mezzo di carcere per omicidio colposo. Eppure anche la “Zeit” scrisse che “Der Unfallverursacher soll unter Drogeneinfluss gestanden haben”, mentre ancora lo “Spiegel” trovò modo di osservare eine gewisse Ironie nella sua fine.

Probabilmente non sapremo mai come è andata veramente; tuttavia la “prima versione” del racconto ha quasi il sapore di un apologo e perciò noi ci affidiamo ancora a essa per ricordare alle giovani generazioni che la droga fa male.

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