A proposito di vittimismo (triggerare i boomeroni)

Tanti (ma tanti) anni fa una delle mie “bibbie” ideologiche di riferimento era La cultura del piagnisteo di Robert Hughes, una raccolta di conferenze risalenti ai primi anni ’90 in cui il critico d’arte australiano sparava a zero sul politicamente corretto, le paranoie liberal, i radical chic e la nascente “politica delle minoranze”. All’epoca tuttavia il meme Ok Boomer (che ha un’origine di estrema destra, non dimenticatelo) non era ancora nato, e nemmeno l’espressione “triggerare i boomeroni” aveva acquisito la sua legittimità nello slang giovanile. Ad ogni modo, il primo sospetto che la verve provocatoria di Hughes lasciasse il tempo che trova mi venne quando quelli de “Il Foglio” fecero diventare il libello la pietra angolare di un nuovo conservatorismo italiano (assieme a La Versione di Barney di Mordecai Richler), dai cui rigidissimi confini era impossibile uscire.

In pratica non c’è mai stato un momento in cui nel Kulturkampf contro il “politicamente corretto” si potessero esprimere intellettuali non allineati a quello che vagamente potremmo definire “liberalismo”: è sempre stata una contesa tra sessantottini delusi e sessantottini integrati. Quindi, anche se ormai mi avvicino alla quarantina, continuo a sfanculare i boomeroni che non riescono a dire nulla di realmente provocatorio senza prima premettere che loro amano e rispettano le d-parola, gli n-parola, gli e-parola e gli f-parola.

In ogni caso, un punto interessante della polemica di Hughes riguarda il vittimismo: a suo parere la dogmatizzazione e l’istituzionalizzazione della “controcultura” in “cultura” si è rivelata una vera e propria “fabbrica di vittime”, che tuttavia esclude da tale dinamica la “Bestia Bionda dell’immaginazione sentimentale”, ovvero “il maschio bianco eterosessuale benestante”.

Insomma, per farla breve (perché ormai certi argomenti puzzano di modernariato), anche i “maschi bianchi etero” a un certo punto hanno dovuto presentarsi come “vittime”, cercando di apparire come più poveri degli altri (attraverso rimasticazioni di marxismo for dummies), oppure rivendicando qualche goccia di sangue ebraico o indiano o di qualsiasi altra etnia oppressa (quindi niente italiani o irlandesi, ché il titolo di “oppresso” vale solo per chi non crede in Cristo), o infine affidandosi allo psicologo di turno per farsi aprire gli occhi sulle colpe dei propri genitori. Ovviamente lo “scorrettissimo” Hughes non si esprime in termini così espliciti perché sotto sotto aveva ancora una voglia matta di passare per sinistroide, comunque questa è la morale.

Ora, i boomeroni hanno introiettato tale forma mentis elaborando un’ideologia anti-vittimista per cui giovani di merda non volete lavorare io alla tua età datti da fare ecc. Questo atteggiamento non era accettabile nemmeno trent’anni fa, nel momento in cui la “rivoluzione culturale” aveva fatto dello status di vittima oppressa il primo requisito per farsi strada nel “sistema”; figuriamoci ora che il maschio bianco eterosessuale (nel frattempo manco più “benestante”) è divenuto realmente una “vittima del sistema” (in particolare negli Stati Uniti, dove il razzismo anti-bianco viene predicato quotidianamente da qualsiasi “minoranza oppressa” accolta col tappeto rosso alla Casa Bianca).

I boomer proprio non ci arrivano: talvolta sembrano assumere atteggiamenti basati, ma essendo le loro premesse erronee finiscono sempre per giungere a conclusioni paradossali. È un po’ come la logica del “sii superiore” con la quale insegnanti e genitori ti intortavano nei confronti dei bulli: alla fine questa idea pseudo-illuminata di “civiltà” si è estesa praticamente a tutto l’esistente, dal fare figli (roba da immigrati) al reagire alle rapine (roba da cinesi) fino al credere che la propria religione sia l’unica vera (roba da mussulmani).

Di conseguenza, in nome del “sii superiore”, è vietato alle vere vittime di questa epoca di unirsi in fazioni, falangi e fratrie e riprendersi tutto. Mi dispiace ma a questo punto i boomer si meritano tutti i meme nello stesso modo in cui loro hanno umiliato la gloriosa Arma dei Carabinieri con le barzellette.

Vorrei concludere con due testimonianze piuttosto significative. La prima è tratta da un’inchiesta del giornalista bolognese Massimo Dursi, pseudonimo di Otello Vecchietti (1902-1982), dedicato agli studenti italiani e pubblicato niente di meno che da Il Mulino nel 1958. Queste pagine dovrebbe mostrare come non sono di certo le ultime generazioni a essere le più lagnose della storia, anzi (peraltro non siamo stati noi a fare quella merda di Sessantotto, l’apoteosi del vittimismo per della gente che aveva avuto TUTTO):

«“Rimprovero a mia madre – dice ora una parmigiana e con amarezza che sa di pianto – ma senza severità né astio, piuttosto con tristezza, di non aver mai detto una volta quella dolce bugia che le madri dovrebbero trovare per le loro figliole sotto i venti anni, cioè: Sei carina, stai bene con quel vestito, con quella pettinatura. Mai! Con nessun vestito, con nessuna pettinatura. Sempre amari commenti sulla durezza dei miei capelli, la magrezza delle guance, delle braccia, la linea del naso. Penso di essere la ragazza meno adulata del secolo. Questo continuo desiderio” (di una buona parola anche se bugiarda) “è frutto della mia vanità di ragazza brutta e mi fa vergognare di me”.
[…] Quel sentimento di odio al quale la studentessa si ribella, è affermato con violenza invece da una ferrarese: “Mio padre, ora lo odio, o mi è indifferente… Io sbaglio sempre, per mio padre, sono una lazzerona (sic), una buona a nulla, una maledetta; sono parole che non si dimenticano e ancora di più se non dicono la verità… Mia sorella è coccolata, ma io egoisticamente, con gioia, mi accorge che è peggiore di me”. Le “ingiustizie” familiari, le preferenze e la inevitabile gelosia che seguono abbuiano l’animo fino a tal punto.
Se questa ragazza sconcerta, la reggiana che ora ascolteremo dà molta pena: “Sono stata tradita dall’unica persona dalla quale avrei il diritto di avere tanto affetto, di avere anche quello di chi (il padre) non mi ha mai voluto dare”. Molti anni fa sua madre indisposta l’aveva mandata fuori per compere, ma la bambina tardò a rincasare perché si era distratta in cortile. “Mia madre – racconta – sentì dalla camera le mie grida allegre e quando salii la trovai tanto scura che pur essendoci abituata, mi spaventai. Mi disse tante cose brutte che non voglio ripetere; dirò solo la più brutta, la più cattiva, che non ho mai detto a nessuno, ma che ora voglio ripetere a voi che mi conoscete. Mi gridò ‘Stupida che sono stata il giorno in cui non ho dato retta a tuo padre e non ti ho ammazzata prima che venissi al mondo!’. Ho cercato tutte le scuse possibili per giustificare questa frase, ma non ne ho trovate, e quel giorno morì anche l’ultimo umano legame di affetto. Non la odiai, ma cominciai dentro di me a rimproverarla di non aver dato ascolto a quell’uomo” […].
La nostalgia di un passato che sembrò sereno, i confronti con altri giovani più fortunati – cioè con quasi tutti quelli che si incontrano – intristiscono l’animo. La soluzione alla quale si ricorre spesso in queste o simili circostanze, cioè di mandare i figli in collegio aggiungere umiliazione al dolore […]. Un esempio: “Mi rodevo il cuore nel guardare le ragazzine che frequentavano il pio istituto in qualità di esterne e pensavo al calore delle loro case e all’affetto di cui senz’altro erano colmate. A me invece ogni inverno venivano i geloni perché nelle immense sale del collegio non c’era caldo abbastanza. Non potevo neppure sognare casa mia perché mio padre e mia madre non riuscivano più a tollerarsi ed erano continue scenate che mi avvilivano sempre di più. Poi tutti – racconta una studentessa modenese – anche le suore, lo seppero e io non desideravo che scomparire, per di più ero brutta e qualche anima caritatevole mi derideva anche per questo. Ero goffa, pure sentivo in me un’anima immortale… Sono rimasta così. non ho nessuna aspirazione o ambizione e tutto mi sembra inutile dal momento che non riesco mai in ciò che vorrei»

(cfr. Massimo Dursi, Giovani soli. Indagine fra gli studenti italiani, Il Mulino, Bologna 1958, pp. 37-42, 190).

Bu-uh.

La seconda testimonianza invece proviene da un intellettuale decisamente più quotato (senza togliere niente a nessuno), Maurizio Battista, che rispondendo a muso duro al tecnocrate Tommaso Padoa-Schioppa, il quale da parvenu (nonostante l’estrazione etnica) si permise di tacciare un intera generazione italiana come “bamboccioni“, rimarcò uno dei concetti più antiboomer di sempre:

«Bamboccione è quello che sta a casa, che nun va in giro, che sta’ a fa’ a casa co’ tu’ madre e tu’ padre, forza, e vattene via, guadagni sette-ottocento euro ar mese, vai, vivite ’a tua vita… venerdì sera, poi sabato torni»

@oggifattenarisatava #mauriziobattista #videodivertenti #cabaret #mamma #bamboccioni ♬ suono originale – Daniele

PS: Peraltro, rispetto all’epoca in cui P-Schioppa coniò la brillante espressione, sono emerse nuove complicazioni: per esempio, Londra ha smesso di essere la meta per i bamboccioni che non vogliono più essere tali (“Vai a lavare i piatti che impari l’inglese”), dato che l’Inghilterra ha abbandonato il Paradiso Terrestre con la Brexit; inoltre l’Italia ha iniziato a importare “bamboccioni” da tutto il mondo, dunque la composizione sociale sta evolvendo verso uno scenario in cui gli allogeni vivranno in residence e gli indigeni in macchina (perciò almeno il problema dei bamboccioni italioti si estinguerà da sé).

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