L’attuale tendenza del cinema horror americano sembra quella di indulgere totalmente all’ideologia woke a discapito di qualsiasi esigenza artistica, o anche economica. Un caso da manuale di questo nuovo corso del genere, preso di mira probabilmente perché era l’unico spazio hollywoodiano non ancora pienamente colonizzato, è A Quiet Place: Day One, il prequel della pellicola post-apocalittica da poco giunto nelle sale italiane, nel quale degli alieni guidati solo da un udito sopraffino e piombati sulla terra da chissà dove divorano gli esser umani che emettono qualche suono di troppo (in senso buono).
Il primo segnale di wokeness lo si evince dalla “negritudine” della protagonista, la quale, a differenza di quanto si potrebbe pensare, rappresenta un elemento inedito nel panorama dell’intrattenimento d’oltreoceano: qui infatti non si tratta della solita polemica “razzista” sugli attori afro-americani, che bene o male si sono fatti strada nella settima arte accettando senza troppi complessi ruoli piuttosto stereotipati, ma di un nuovo tipo di figura, l’africano-americano.
L’attrice che interpreta il ruolo principale è invero Lupita Nyong’o, una kenyota nata a Città del Messico e cresciuta a Nairobi le cui caratteristiche non solo anagrafiche ma anche somatiche e linguistiche rispondono perfettamente ai nuovi dogmi della diversità imposti allo spettacolo: non basta più la “pelle nera”, ci vuole una blackness “migrante”, sradicata, in ultima analisi globalizzata. Non a caso anche l’altro attore di colore, Djimon Hounsou, è nato in Benin, cresciuto in Francia e infine emigrato negli Stati Uniti all’età di 26 anni…
Il secondo sintomo del dirottamento sinistroide del filone è la “medicalizzazione” della trama e dei personaggi: Lupita è per l’appunto una malata terminale di cancro e tale condizione offre l’opportunità al regista non solo di indugiare in un feticismo estremo per i dispostivi medici, ma soprattutto di trasformare il film in un’opera introspettiva basata quasi esclusivamente sui problemi personali dei vari caratteri. Per questo motivo ogni horror americano degli ultimi anni è un’infinita auto-analisi dello sfigato di turno che, ripiegato su se stesso ai limiti dell’autismo, se ne infischia beatamente di quanto sta accadendo attorno a lui (apocalisse, stragi, esplosioni atomiche ecc…) per assecondare le proprie ansie e paranoie.
Siamo dunque passati al protagonista “superuomo” che riesce ad ammazzare bestie giganti a pugni, a una banda di sociopatici che passano ore a piangersi addosso e a dubitare del fatto che vogliano davvero salvarsi dal pericolo di turno. Nel caso dell’ultimo capitolo di A Quiet Place, lo spettatore deve sorbirsi scene infinite in cui Lupita si gusta una pizza fredda, legge una poesia o indulge in scleri continui sostenuta in ciò dal co-protagonista Joseph Quinn, uno studente britannico in preda a crisi di panico continue, che riesce a scappare dagli extraterrestri affamati grazie alla particolare caratteristica del “gatto di supporto emotivo” della negretta ammalata, il quale NON miagola mai se non nell’ultima scena in cui è finalmente salvo su una barca.
Quest’ultimo è uno dei tanti dettagli che fanno evincere come gli autori abbiano sacrificato volentieri ogni plausibilità della trama pur di infarcirla con le nuove manie del progressismo americano. E ciò potrebbe valere anche come epitome delle politiche del Partito Democratico, che seguono una simile dinamica di appropriazione degli “otri vecchi” allo scopo di metterci un presunto “vino nuovo” che è in realtà un beverone di liquidi maleodoranti.
Così come l’americano medio vota a “sinistra” aspettandosi lavoro e redistribuzione del reddito ma avendo in cambio lo smantellamento del welfare per favorire le “minoranze”, così lo spettatore americano (e internazionale) vorrebbe vedersi il classico horror yankee e invece si deve sorbire un dramma sentimentale sull’amicizia nata tra una poetessa kenyota malata terminale di cancro e uno studentello inglese sprovveduto e timido che passeggiano per una New York finalmente silenziosa dove possono crogiolarsi nei propri turbamenti interiori e infine pascersi del fatto che la loro intrinseca pulsione di morte abbia ottenuto una manifestazione reale negli alieni mangiauomini. Sostanzialmente votare a sinistra o guardare un film di questi tempi è diventato un medesimo modo di “farsi del male”…
Regia occulta conclamata. La fabbrica dei sogni… in atto la conversione in incubi.
Stessa minestra – al gusto merda e odio per Gesù Cristo – nell’orrendo Blink Twice. Uno Stato che volesse davvero fare l’interesse degli Italiani dovrebbe vietare la proiezione di queste indegne cagate americane, che distruggono la mente e zombificano sempre di più la società.
Credo che ormai l’unico genere che in America che non sia contaminato dalla woke sia la serie B ma a basso budget , Z e underground , quella che ormai esce direttamente Direct-to-video oppure direttamente in streaming.
Questo film e andato bene al botteghino, anche se la produzione hollywoodiana con contenuti impregnati sul wokismo cominciano a prendere contraccolpi pesanti in costi economici.
Riguardo al cinema horror americano sarebbe interessante fare anche un riflessione sulla letteratura e cinema made in U.S.A, anche se è entrata la woke adesso, prima c’erano autori scrittori e registi che sono oppure erano dichiaratamente di sinistra.
Come posso vederli?
ciao, purtroppo tanti titoli rimangono in inglese oppure vengono distribuiti in Italia dopo tanto tempo.
Grazie del commento Arthur, hai qualche titolo da consigliare?
Ciao Mister
Per quanto riguarda il genere horror, l’horror folk Starve Acre (2023 horror indipendente ) ma è un film britannico non americano.
Per quanto riguardo l’America:
The Passenger (2023) film Thriller film del senza contenuti ideologici.
Desperation Road 2023 – Fast Charlie 2023 (indie film – neo noir) LaRoy, Texas (2023)
Se mi viene in mente qualche altro titolo lo scrivo.
Insomma:
Una nostalgia feticistica del lockdown e della cancellazione della società, silenziata da un comodissimo sistema di sorveglianza di massa inumano