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Alain Daniélou falsificatore dell’induismo

¿Ha sido desenmascarado Alan Daniélou?
(Vicente Merlo, Instituto de Indología, 2016)


Numerose e gravi sono le accuse che Jean-Louis Gabin rivolge ad Alain Daniélou nel suo L’hindouisme traditionnel et l’interpretation d’Alain Daniélou, pubblicato da Les Éditions du Cerf (2010). È quindi importante tenere conto di queste accuse, con le evidenze e gli argomenti offerti, per determinare se A. Daniélou abbia tradito, deformato e “invertito” gli insegnamenti dell’induismo tradizionale a cui ha potuto avere accesso grazie ai rapporti personali con Swâmî Karpâtrî. Non si tratta solo della manipolazione e mutilazione di testi di questa autorità ortodossa dell’induismo del ventesimo secolo, ma di qualcosa di più ampia portata: la falsificazione sistematica da parte di A. Daniélou dell’induismo tradizionale e ortodosso.

Tre sono, infatti, i protagonisti di questo volume di oltre 500 pagine (che non si può smettere di leggere una volta cominciato): Alain Daniélou come principale “accusato”, e Swâmî Kârpatrî e René Guénon come le principali “autorità” opposte alle manipolazioni del celebre indologo, fratello del non meno celebre cardinale Jean Daniélou.

Jean-Louis Gabin venne incaricato dallo stesso Daniélou di curare i suoi scritti, dopo averlo conosciuto nel 1987, ai tempi in cui era tornato da un soggiorno di oltre quindici anni in India e si era sistemato con il compagno Raymond Burnier (erede di Nestlé, le cui foto delle sculture in pose erotiche di alcuni templi indù hanno fatto il giro del mondo).

Gabin è passato dall’ammirazione all’indignazione quando si è accorto delle menzogne e alterazioni introdotte nei testi di Swâmî Karpâtrî da Daniélou. Tra le altre cose, non sappiamo se si tratti di un errore (im)perdonabile o di una contraffazione intenzionale e colpevole, l’attribuzione a Swâmî della fondazione del Jana Sangh, partito associato al Rashtriya Swayamsevak Sangh e al Bharatiya Janata Party, sigle che non dovrebbero apparire in questa recensione ma che rappresentano movimenti violenti e fondamentalisti, che hanno ispirato gesti come l’assassinio di Gandhi o la demolizione della moschea di Babri Masjid ad Ayodhya.

Swâmî Karpâtrî, totalmente sconosciuto in Occidente fino all’interesse di Daniélou, è presentato come una grande autorità nei media tradizionali dell’India, sia per il suo esempio spirituale che per per l’impegno politico, avendo creato nel 1950 un partito che rappresenta il Dharma indù tradizionale, il Ram Rajya Parishad, e un’associazione culturale, Dharma Sangh.

Poiché A. Daniélou ha ripetutamente proclamato il suo disinteresse per la politica, si potrebbe pensare che non sia altro che un errore deplorevole o una confusione dovuta all’assonanza tra Jana Sangh e Dharma Sangh, o dalla somiglianza dell’acronimo dell’RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh), partito di estrema destra, e il RRP (Ram Rajya Parishad), impeccabile formazione indù tradizionale e ortodossa. Ora, questa confusione, comprensibile in chi ignora la lingua e la politica indiane, non è tanto giustificabile in colui che si confessa ammiratore, discepolo e traduttore di Swâmî, un uomo che ha sempre condannato apertamente idee, atteggiamenti e azioni del partito che invece secondo Daniélou egli avrebbe fondato.

Tuttavia, ciò non sarebbe l’errore più grave e imperdonabile, poiché il trattamento riservato ai testi di Swâmî da Daniélou è ancora più impressionante: censura di frasi e “tagli” di passaggi importanti, fino alla manipolazione totale del significato delle sue parole. E non solo con i suoi testi, ma anche con i classici dell’induismo, dalle Upanishad ai Purâna, fino al Bhagavad Gîtâ. Perché? Apparentemente per introdurli nel letto di Procuste delle sue idee preconcette, che già troviamo in uno dei suoi libri di maggior successo, Shiva e Dioniso. La religione della natura e dell’eros, pubblicato nel 1987 da Kairós.

Ciò che Gabin cerca di mostrare, attraverso il confronto di testi, è che A. Daniélou, influenzato dalla lettura di René Guénon (con cui ha mantenuto costanti rapporti epistolari e dal quale ha anche tradotto alcuni testi per riviste indiane) ha accettato il concetto di “tradizione primordiale”, ma, in maniera davvero poco “guenoniana”, ha affermato l’esistenza di uno “shivaismo esoterico“, le cui origini risalirebbero a prima dell’invasione degli ariani, e che avrebbe somiglianze con le correnti dionisiache greche.

In tutto ciò (ecco l’intenzione dominante nei lavori di Daniélou) troveremmo tracce della religione primordiale, l’unica che a suo parere potrebbe salvare l’umanità perduta: una religione basata sulla sacralizzazione del piacere, dei baccanali e dell’estasi sessuale. Infatti, nel suddetto lavoro leggiamo: “La via di Shiva-Dioniso è l’unica via che potrebbe salvare l’umanità” (p. 12).

Tutto ciò risulta più comprensibile mettendolo in relazione al rifiuto viscerale che A. Daniélou ha provato per tutta la vita nei confronti del cristianesimo, senza dubbio a causa del fervore religioso di sua madre (fondatrice di un movimento cattolico nella Francia di inizio Novecento), la quale, a quanto pare, non aveva un’ottima opinione di suo figlio, né tanto meno della sua omosessualità.

In Daniélou troviamo un rifiuto non solo del cristianesimo – in particolare della Chiesa cattolica – ma di tutto il monoteismo, verso il quale muove una feroce critica nella misura in cui si trova a difendere zelantemente il politeismo. Da qui uno dei libri più ammirati dai suoi seguaci, Mythes et Dieux de l’Inde: le polytheisme hindou, nel cui prologo egli afferma:

«La leggenda di Osiride, arrivata dall’India all’Egitto cavalcando un toro (come Shiva), così come i culti di Dioniso e Bacco, sono rami poco noti dello shivaismo. Le basi del più antico pensiero cinese sono meditazioni sui simboli shivaisti. I termini Yin e Yang non sono altro che una pronuncia cinese delle parole yoni e linga, che rappresentano gli emblemi femminili e maschili» (p. 9 dell’originale francese).

Questo libro, come riconosce lo stesso autore, è debitore degli insegnamenti e i testi di Swâmî Karpâtrî: ma gli errori e le interpretazioni di Daniélou restano inquietanti. Gabin riassume dunque le principali accuse verso la “falsificazione” dell’indologo in relazione agli insegnamenti di Swâmî Karpâtrî. La cosa più grave -e Gabin fa bene a insistere sul punto- non è tanto che Daniélou difenda le sue idee, ma che le presenti come se fossero frutto di Swâmî Karpâtrî e della tradizione indù più ortodossa.

Gabin afferma infatti che

«l’assolutizzazione del linga a danno dello yoni, l’assimilazione del suo culto ai culti fallici e un edonismo mascherato da tantrismo, la divisione tra Shiva e la Dea, l’opposizione tra Shiva e Vishnu, la caratterizzazione dell’induismo come politeista, di Shiva come una divinità dell’oscurità [tamas], l’opposizione degli ariani “puritani” ai dravidiani estatici – tutte idee, insomma, con le quali le opere di Alain Daniélou hanno acquisito la loro celebrità che si oppongono totalmente all’induismo tradizionale così come esposto da Swâmî Karpâtrî» (p. 133).

Demagogia, cinismo, machiavellismo, tradimento, impostura, sono alcuni dei termini che Gabin usa per smascherare le manipolazioni che A. Daniélou avrebbe effettuato. E si applicano non solo a Swâmî Karpâtrî, ma anche a Guénon. Vale a dire che Guénon non sarebbe stato solo frainteso, ma manipolato da Daniélou, nel momento in cui ha deciso di estrapolare alcune citazioni fuori dal contesto per fargli dire ciò che voleva lui.

Cosa pensare di questa energica e articolata reprimenda di Gabin contro A. Daniélou? Sono propenso a pensare che il critico abbia ragione in gran parte dei suoi rilievi e che la sua “smascheratura” sia in molti casi efficacissima, anche dal punto di vista “psicologico” (odio della madre, irrazionale reazione anti-cattolica e anti-monoteistica, influenza dell’omosessualità nella vita e nell’opera). Questo lo porta perciò ad accostare le opinioni dell’indologo, più che a una religiosità o spiritualità tradizionali, all’ateismo e al materialismo (nascosti o palesi in molte delle sue affermazioni, quando ad esempio nega qualsiasi possibilità di sopravvivenza post mortem e rifiuta spesso l’idea della trasmigrazione dell’anima).

Tale tendenza la si nota soprattutto nel disprezzo per i riti e il senso dei mantra, proprio da parte di uno che a suo dire sarebbe stato “iniziato” a rituali tantrici riservati a una minoranza (cosa messa in dubbio dal Gabin). Richiamano l’attenzione anche le critiche a Gandhi, Ramana Maharshi e Sri Aurobindo, ritratti come falsificatori (la proiezione come meccanismo di difesa psicoanalitica insinuata in molte occasioni da Gabin?), per non dire del suo disprezzo verso Mosè, Maometto e altri monoteisti.

In conclusione, il lavoro di Jean-Louis Gabin costituisce uno sforzo degno di nota per aver esposto l’impostura di colui che aveva tanto ammirato e del quale in seguito fu costretto ad ammettere la mancanza di rispetto e onestà intellettuale con cui ha affrontato i testi e gli insegnamenti di Swâmî Karpâtrî, René Guénon e in generale della tradizione indù. Un libro controverso, coraggioso ed essenziale per correggere la posizione occupata da Daniélou nell’indologia del ventesimo secolo.

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