Allo stato attuale gli articoli più “complottisti” sul caso di Garlasco li ha pubblicato nientedimeno che “Repubblica”, con due editoriali al fulmicotone tra il 31 maggio (Garlasco, maschere per un massacro) e il 2 giugno (Le gemelle Cappa e le troppe verità sul giorno del delitto tra amici influenti e voglia di apparire) che sono l’epitome della garlaschite mediatica degli ultimi due mesi (vi consiglio di leggerli ai link che vi ho fornito).
In questi pezzi, al di là dei vari mostri sbattuti in prima pagina, perlomeno Alberto Stasi emerge come “lo scalpo innocente di una Twin Peaks lombarda“. A scriverlo è Carlo Bonini, firma di prestigio del quotidiano, che fa a pezzi il movente “passionale” basato sulle presunte parafilie dell’allora ventiquattrenne, addirittura facendo intuire di aver potuto visionare i filmatini osé di Chiara e Alberto, sì, quelli che il fratello della vittima richiedeva a quest’ultimo davanti alla tomba della sorella appena morta, non si sa bene per farci cosa…
Queste le osservazioni, per una volta condivisibili, della penna di “Repubblica”:
«In quell’estate 2007, del colpevole Stasi sembra avere tutto: la fisiognomica, i modi da nerd e la postura emotiva, che suggeriscono, insieme a un deficit di empatia, un eccesso di autostima, al limite dell’arroganza. […] Stasi è insomma una maschera a suo modo perfetta. La prima a fare capolino sul proscenio. È un “perverso” che rompe l’ordine delle cose. E, una volta “scoperto” dalla sua fidanzata, premedita e consuma nello spazio di venti minuti un omicidio a sangue freddo».
Della persona (in senso etimologico) di Alberto Stasi ho già discusso in precedenza, in un pezzo che peraltro ha avuto una discreta visibilità (ai lettori piacciono i titoli assurdi, e questo spiega anche il senso del pezzo che sto scrivendo).
Ora vorrei invece occuparmi di costui da una prospettiva più controversa, che non saprei nemmeno come definire. Partiamo allora da un dato che praticamente nessuno conosce: Alberto Stasi è di origini pugliesi. A rivelarlo è la scrittrice Gabriella Ambrosio ne Il Garbuglio di Garlasco, descrivendo il padre di quest’ultimo, Nicola Stasi:
«Il padre era lo spunzone d’acciaio cui si erano avvinghiati in tutti quegli anni. Un uomo che possedeva quel tipo di forza che rende capaci di prendere le distanze con un meccanismo che scatta automatico, perché già sperimentato altre volte nel tempo della vita. Orfano di padre da bambino, aveva cominciato a lavorare a tredici anni emigrando dalla Puglia in Germania; il suo primo posto di lavoro stabile era stato da commesso in un negozio di autoricambi a Segrate; poi s’era messo in società col datore di lavoro; infine, aveva rilevato da solo un negozio a Garlasco, dove erano arrivati, estranei al paese, quando Alberto aveva già quindici anni. A Garlasco non s’era fatto amare, per via di quel suo carattere brusco e poco affabile, ma gli affari andavano bene, aveva costruito una bella villa per la sua famiglia, poi comprato una casa al mare a Spotorno, e anche una barca. Aveva dato all’unico figlio le migliori scuole private, e scoppiando d’orgoglio gli aveva pagato i corsi all’Università Bocconi».
L’epopea boomer è importantissima, ma purtroppo dobbiamo lasciarla da parte. Il nome “Nicola” di certo rimanda alla Puglia Puglia, cioè a tutto ciò che non è Salento e che ha come riferimento generico Bari. E il cognome Stasi, pur essendo ormai panitalico, ha le sue radici più profonde nella stessa regione, rappresentando (secondo le etimologie più affidabili) un ipocoristico aferetico di “Anastasio”, la cui origine risalirebbe a un culto di un santo omonimo.
D’altro canto, l’Alberto non ha mai manifestato sintomi di “terronismo”, nemmeno nelle vesti di improbabile femminicida (non avendo peraltro un movente realmente passionale, essendo per giunta legato a certe turbe sessuali così tipicamente “nordiche”). Anzi, per certi versi egli è assurto a emblema del “polentone”, il “biondino dagli occhi di ghiaccio” che ai vari Gargiulo e Scognamiglio che lo torchiavano perché non era affatto “passionale” con la sua fidanzata (e questo poteva costituire almeno l’abbozzo di una motivazione dietro al delitto), egli rispondeva papale papale che “non eravamo come quelle coppie del Sud che vanno in giro a sbandierare un fidanzamento” (en passant mi piace ricordare che il Nostro talvolta rispondeva da “stronzetto” perché, come ricorda ancora l’ottima Ambrosio in una battuta tranchant, “Il ragazzo si chiamava Stasi come il famigerato corpo di agenti torturatori dell’Est, e nomen omen“).
In effetti, nonostante l’origine japigica, Alberto Stasi, oltre che negli atteggiamenti, è esageratamente settentrionale persino in quella “peculiare somatica” (così l’ex maresciallo Francesco Marchetto) che lo ha subito reso sospetto agli occhi degli inquirenti. Il suo corredo fenotipico è infatti caratteristico delle popolazioni dell’Europa centro-settentrionale/orientale: pelle chiara, occhi azzurro-grigi, capelli biondo-castani, cranio mesocefalico, naso stretto e diritto, morfologia facciale alta e stretta. E nonostante la forma del cranio talvolta possa causare qualche perplessità (ma penso sia soprattutto a causa dell’acconciatura… chissà chi taglia i capelli ai carcerati…), l’assenza di marcata brachicefalia rafforza comunque l’inquadramento in un continuum Nordico-Baltico leggero.
Bisogna ammettere che il soggetto assomiglia molto di più alla madre (Elisabetta Ligabò, cognome che in varie varianti è piuttosto tipico dell’area), che al padre. Tuttavia è interessante che un individuo al 50% di sangue pugliese sia diventato simbolo di una nordicità algida, distaccata, frigida, la quale ha portato inconsciamente una parte del Paese, almeno agli inizi, a dichiararsi “colpevolista”. Il fenotipo, insomma, è diventato un archetìpo (concedete la licenza poetica). Le teorie lombrosiane hanno rifatto capitolino una tantum nelle sparate dei grandi giornali, che hanno rispolverato la frenologia e altre scienze iniziatiche per lapidare lo sventurato Alberto.
Ecco perché sui muri d’Italia la Vox Populi ha espresso, nei modi viscerali che le sono consoni, una verità che è falsa, cioè anti-storica (ma pure anti-tutto) nel momento in cui è vera, cioè metapolitica. Si abbia allora il coraggio di dirlo anche noi: Alberto Stasi Eroe della Razza Ariana, ma -a questo punto- solo se innocente (perché le “Coppie del Nord”, ad onta dei turettomani, queste cose non le fanno).
Ennesima vittoria per il CESSO METAFISICO, ultimo baluardo metapolitico d’Italia
Questo articolo sembra un crossover con il Redpillatore!
Battute a parte non ne farei una questione nord/sud quanto di mera personalità, tendente all’introversione con tutti i pregiudizi che ne derivano. Sulle presunte parafilie sarebbe interessante determinare se sono causa o effetto del consumo disordinato di pornografia
Disposti
i tasti
del pensamento tuo
afferente
Ecce l’homo
l’impenitente!
L’ipertesto c’ha dato alla testa:
l’olimpica illusione di sovradire per essere inattaccati.
Reitero: il contesto ha raggiunto il vertice dell’avvertimento.
Sser ‘n genio è pure brutto.
Quando capirai, capirai.
VCSSQ
No, non capisco… “il contesto ha raggiunto il vertice dell’avvertimento”… ma è un messaggio legato a questo post o alle mie boiate in generale?
Perché il senso dei meme è immediatamente appreso?
Il contesto ha raggiunto il vertice dell’avvertimento: ogni parola enunciata sulla “galassia internet” (Castells) attiva subito nel lettore un riferimento univoco ed oggettivo. Uniformazione ed omogeneizzazione del linguaggio umano – ovunque, quindi anche fuori di qui – hanno fatto dell’esprimersi sempre un contesto (mai testo, come quello biblico il cui universo simbolico È l’universo simbolico) del quale ogni asserzione rimanda necessariamente a un significante (vertice) nella direzione (raggiunge) di un’indicazione coattiva al significato (avvertimento – in senso attivo: avverto che ho capito – e in senso passivo: so e sento di doverlo fare altrimenti sono fuori dal mondo).
La fine dell’interpretazione, in una parola.
Oppure: viva l’AI, a morte l’AI!
Oppure: la fine del dire, il dominio del vedere.
È la stessa cosa.
Ding an sich… und niemand Holzwege
«Ne il» è brutto e non è italiano.
Certo che è italiano, al limite può essere macchinoso ma è così che si scrive (sempre in italiano). Non stiamo, d’altronde, parlando di un classico per cui si può mettere direttamente la preposizione trascurando l’articolo del titolo originale, come per esempio I Promessi Sposi (“nei Promessi Sposi” invece che “ne I Promessi Sposi“, formula che del resto è ancora in voga nella saggistica) oppure Il Gattopardo (“Nel Gattopardo” ecc). Scrivere “nel Garbuglio di Garlasco” sarebbe stato molto più… “brutto”.
Azzarderei una ipotesi che potremmo definire “immaginale”, richiamando la nozione di Immaginario (in senso lacaniano) e quella di “archetipo” (in senso Junghiano).
Mi spiego meglio: Stasi ha una straordinaria somiglianza col giovane Angelo Izzo -spietato assassino, manipolatore, emblematico del “male” italiano. In pratica il suo volto si è fissato nell’immaginario collettivo come una “icona semiotica” del giovane assassino.
Per Lacan l’immagine del volto è parte della dimensione dell’immaginario. Il volto di Izzo funziona come significante del Male, punto di angoscia e fascinazione.
In pratica Stasi sarebbe vittima di un effetto halo negativo, mettici -come giustamente osservi- questa forma di fisiognomica implicita evidenziata da Bonini (aggiungerei labbra sottili-sadico-anaffettive opposte a labbra carnose-passionali) e la “profilazione emotiva” è servita.
Non è da escludere che gli stessi addetti ai lavori (inquirenti, carabinieri, etc abbiano subito l’effetto associazione proiettiva Izzo-archetipo-maschera del male-Stasi.