Aleksandr Dugin e la geopolitica come “scienza esatta”

Lo scontro tra Mosca e Kiev che sta infiammando in queste ore il panorama mainstream (senza soluzione di continuità col clima da emergenza infinita, ormai genius saeculi di un’epoca ridicola) ha portato nuovamente alla ribalta la figura imponente e fantasmagorica di Aleksandr Dugin, intellettuale russo considerato dai media occidentali una sorta di “Rasputin di Putin” (definizione tanto altisonante quanto falsa).

Dobbiamo in effetti riconoscere che il copione del conflitto scoppiato in Ucraina sembra uscito dalla penna di questo politologo sui generis, infervorato dall’idea che la geopolitica sia “una scienza esatta” (come ha avuto modo di affermare in diversi luoghi) e di conseguenza assolutamente certo che lo scontro in atto scaturisca dalla secolare dialettica fra terra e mare (talassocrazia vs. tellurocrazia) o, per dirla in maniera ancor più “scientifica”, dalle mitologiche battaglie tra il Behemoth e il Leviatano.

Come introduzione al pensiero di Dugin, consiglio l’ottimo post del blog “Inimicizie” (La Geopolitica di Dugin, 24 gennaio 2022), che partendo dal volume Geopolitika Rossii del 2012 (tradotto in italiano nel 2018 col titolo L’ultima guerra dell’isola mondo), cerca di riassumere per sommi capi l’ideologia del Nostro, riducendola a due idee principali:

«La prima [idea] è che le sorti geopolitiche del mondo siano decise dal controllo dell’heartland, che MacKinder definisce “il perno geografico della storia”, ovvero quella zona che va dall’est Europa all’Asia centrale passando per la Siberia. Solo tramite il controllo dell’heartland è possibile controllare il continente eurasiatico, “l’isola-mondo”, l’area geopolitica di gran lunga più influente sul pianeta.
La seconda è che la storia umana sia segnata da una costante: Lo scontro tra civiltà di terra e civiltà di mare, tra tellurocrazia e talassocrazia. Queste due civiltà non solo si trovano in costante competizione per il controllo dell’heartland, e quindi di tutto il mondo, ma rappresentano due modelli di civiltà alternativi, radicalmente diversi tra loro e quindi incompatibili».

Queste sono sostanzialmente le basi di quel vastissimo campo di studi che va appunto sotto l’etichetta di “geopolitica”: ciò che Dugin aggiunge a tesi altrimenti ritrite è la contestualizzazione nell’ambito della storia russa moderna. In pratica nella sua visione tutte le vicende politiche che hanno caratterizzato la “Terza Roma” si possono osservare esclusivamente nell’opposizione fra terra e mare, nonché nella dialettica tra heartland (roccaforte della tellurocrazia) e rimland (ventre molle dell’Eurasia in cui si inseriscono carsicamente le talassocrazie).

Da qui il filosofo (per citare ancora “Inimicizie”) “individua poi, da Stalin fino a Chernenko, una continuità nella conduzione di una geopolitica prettamente eurasiatica e volta all’espansione dell’influenza dell’heartland, che ha portato la Russia […] alla sua massima espansione storica e influenza mondiale” e invoca da parte dell’attuale Presidente russo una maggior attenzione verso una “ideologia eurasiatica e tellurocratica” che rinverdisca i fasti dell’assolutismo zarista e del socialismo sovietico.

Rimandando ancora, per un approfondimento più generale, all’articolo segnalato [*], mi permetto di avanzare qualche osservazione più critica nei confronti del buon Dugin. In primo luogo, convince il parere del giornalista britannico Charles Clover, per il quale il merito del “Rasputin di Putin” è stato di aver trasformatore l’esploratore Halford Mackinder («un tipo stravagante dell’era edoardiana che mai ebbe una cattedra a Oxford») in una sorta di “Cardinal Richelieu di Whitehall”.

Non che sia tutta colpa di Dugin aver accettato acriticamente le elucubrazioni del “capostipite” inglese, perlopiù influenzate dall’occultismo e all’irrazionalismo tardo-ottocentesco; tuttavia il suo fanatismo tipicamente “slavo” nell’abbracciarle (al pari dei suoi predecessori del XIX secolo che ebbero un rapporto viscerale con l’hegelismo, milieu perfettamente ritratto da Isaiah Berlin) lo rende decisamente adatto a rappresentare un ideale obiettivo polemico.

Ricominciamo, però, dal Mackinder: secondo l’orientalista Alessandro Grossato, le teorie del geografo britannico in verità riprenderebbero

«descrizioni mitiche e rappresentazioni simboliche delle religioni dell’Asia centro-orientale e meridionale che circolavano ampiamente negli ambienti fabiani di cui l’autore era frequentatore, […] [come] la rappresentazione dell’Eurasia nella cosmologia indù e buddhista, […] un’unica isola-continente ruotante attorno all’asse immobile della montagna cosmica».

Partendo da tale presupposto, non meno affascinanti delle rielaborazioni di Dugin risultano quelle dell’ammiraglio statunitense e storico di Harvard Samuel Eliot Morison (1887–1976) che innestò la dicotomia tra talassocrazia e tellurocrazia nell’opposizione perenne tra libertà e tirannia: da una parte Atene, il Regno Unito e l’America, dall’altra Sparta, la Prussia e la Cina.

Una “storia del mondo” lontana per ispirazione da quella di Carl Schmitt di Land und Meer, ma intrisa anch’essa di simboli e mitologie: il fatto che la stessa idea sia passata dalla testa di un filosofo del Terzo Reich a quella di un “bramino bostoniano” come l’ammiraglio Eliot, per poi finire sulle sapienti labbra di un “affabulatore orientale” (conteur oriental, come Emmanuel Carrère parla di Dugin nel suo Limonov), contribuisce ad alimentarne il fascino. Sarà per questo che innumerevoli analisti d’oltreoceano da tempo si proclamano seguaci di Mackinder e stilano manuali di strategia con lo stesso tono della letteratura self-help che oggi va per la maggiore (roba tipo Heartland for dummies).

Il problema principale, forse, sta proprio nell’attrattiva di un paradigma apparentemente in grado di spiegare ogni minimo sussulto nell’arena internazionale: paradossalmente, però, presentare la politica estera degli Stati Uniti post-1989 come tipica di una talassocrazia rischia da una parte di conferire agli americani l’emblema di eterni vincitori, e dall’altra di giustificare il dispotismo come necessità imposta dalla “terra” (russa o orientale che sia).

E se invece qui si stesse solo trasformando un problema dell’era presente (l’incapacità degli USA di gestire uno spazio imperiale) in una sorta di “scienza universale degli assoluti”? Penso, per esempio, all’illusione ottica di vedere una strategia (“del caos” o “del pazzo”, come la definisce Emmanuel Todd) dove non vi è strategia alcuna, se non il mero tentativo di prorogare il ridimensionamento delle proprie ambizioni.

La questione, più cinicamente, mi pare si possa porre nei termini che seguono: Washington ha mancato ogni appuntamento storico per testare le proprie capacità imperiali. Se è lecito indagare le cause di tale catastrofe, non pare  consentito trasfigurare la circostanza storica in una “falsa coscienza” che accrediti la tirannia come tappa obbligata nel passaggio di consegne da una civiltà all’altra.

Torniamo, dunque, alla realtà o a una rappresentazione di essa che escluda eccessivi voli pindarici. Ricordando in primis che, dopo una certa esaltazione dovuta alla cessione di mezza Europa a Stalin mascherata da vittoria militare, gli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con disastri come la guerra di Corea e quella del Vietnam, nonché, una volta preso atto della propria decadenza, finire ad affidarsi totalmente alla guerra per procura (con l’eccezione della ridicola invasione di Grenada del 1983 e altri episodi minori).

Il caso siriano, tanto per citare, è emblematico sotto diversi aspetti; pensiamo quanto il modo in cui gli aiuti economici e militari degli Stati Uniti ai ribelli moderati siano finiti nelle casse degli estremisti ricalchi quel che accadde in Cambogia all’inizio degli anni ’80: il sostegno militare (armi “non letali”) e finanziario degli anglo-americani al “Governo di coalizione della Kampuchea Democratica” formato dai monarchici (guidati direttamente dal re), dai comunisti polpottiani (freschi di genocidio) e dai nazionalisti anticomunisti, finì agli eredi della “Kampuchea Democratica” che rappresentavano la maggioranza delle forze anti-vietnamite sul campo. (En passant, non è ancora possibile affermare se in futuro le atrocità dell’Isis verranno attribuite interamente all’islamismo così come quelle dei Khmer rossi siano state accollate al comunismo sconfitto).

Lo stesso discorso vale per l’Ucraina, con qualche aggravante: in primo luogo l’aver affidato la “transizione democratica” (chiamiamola così) non a un rassicurante governo fantoccio, ma a “ribelli” ben poco moderati. Scottati dal fallimento dell’ennesima “rivoluzione colorata”, gli americani hanno agito goffamente, come se si trovassero in piena guerra fredda, auspicando che il riciclaggio di personaggi impresentabili venisse accettato dall’opinione pubblica occidentale come un male necessario per salvare il mondo libero: al contrario, è proprio per la percezione di un “tradimento” che diversi osservatori statunitensi sin dal 2014 si sono prodigati nel segnalare la continuità tra i collaborazionisti del Reich che vissero il “sogno americano” (come Jaroslav Stetsko) e la galassia neonazista perennemente gravitante attorno ai partiti di governo.

L’Ucraina appariva dunque, ancor prima dell’invasione russa, come una nazione al collasso, quasi un failed state, condannata dalle euro-riforme a una recessione perpetua e dalle squadracce nazionaliste a una insormontabile precarietà (di contro, tra le altre cose, all’ascesa in Europa Orientale di medie potenze regionali come Polonia e Ungheria).

Inoltre, volendo celiare, si ha come l’impressione che gli Stati Uniti, quasi per osmosi, abbiano trasmesso agli eserciti alleati l’incapacità di combattere a terra, inquinando il proverbiale “morale delle truppe” con l’impiego massiccio di compagnie militari private. Escludendo perciò a priori l’ipotesi di intervento, cosa potranno fare gli americani di fronte al declino della loro influenza ai confini d’Europa? Invieranno pacchi di fotocopie del Manuale Sharp? Organizzeranno conferenze di Soros? Probabilmente sì, ma questo non farà che abbreviare l’agonia.

Alla luce della situazione attuale si aprono per il Vecchio Continente scenari inediti (anche se tragici), sui quali la “scienza esatta” della geopolitica riesce a dir poco, al di là della paternale eurasiatica riguardo al rinunciare agli orgogli nazionali per creare un immenso continente tellurocratico da Lisbona a Vladivostok. “Eurasia”, in fondo, non è che una espressione geografica, o addirittura un flatus vocis, parola magica con la quale si spera di aprire chissà quale scrigno segreto; c’è tuttavia chi non è disposto a sacrificare la propria identità in nome di una fantomatica integrazione che dovrebbe estendersi a chissà quale confine.

Dugin imbraccia un Kalashnikov di fronte ad un veicolo corazzato con la bandiera dell’Ossezia del Sud, repubblica separatista nel nord della Georgia (foto ripresa ancora da Inimicizie)

[*] Dell’ottimo pezzo di “Inimicizie” non condivido solamente il paragone tra Dugin e Schmitt, per il semplice motivo che quest’ultimo non sviluppò mai una visione tanto rigida e schematica sulla dialettica terra-mare, specialmente nei confronti dei “valori” che una tellurocrazia o una talassocrazia dovrebbero adottare. Mi permetto, solo a titolo d’esempio, di rimandare al mio Carl Schmitt e il liberalismo come romanticismo politico.

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One thought on “Aleksandr Dugin e la geopolitica come “scienza esatta”

  1. Essendo morto Olavo de Carvalho metto il legame digitale del dibattito che ebbe con l’occultista Dughin. Non che il brasiliano non avesse pecche ( sionismo e liberismo – von misesiano ovviamente – su tutti ) ma ai lettori la sentenza.

    https://debateolavodugin.blogspot.com/

    Ovviamente non si può non partire citando il Ziz che comprendendo la sacra Bibbia associa sempre le potenze dell’acqua a quelle dell’aria ( volendo anche negli elementali cosmici ) ponendo quindi un ridimensionamento della fantomatica contrapposizione col Behemot o comunque le potenze terrestri nella retorica pseudopolitica che si riporta.
    Difatti la grande misincomprensione è che come lo Ziz riposa sulla terra dominando il Cielo, così il Leviathan domina il mare dimorando nei suoi fondali, cosicché la terra d’altronde è “inevitabile per tutti”.
    Quindi chiarito questo smettiamola sia di usare i miti biblici con falsi complementarismi od opposizionismi e sia a convincere che il commercio e dominio via mare non sia infondo che mero comunicare di terre collegate e soggette l’una all’altra di cui il commonwealth è l’esempio ed il riferimento finale.
    Il solletico di tutte queste teorie, per chi è ebreo-cristiano, non può poi che indicare un volgersi cedevole al principe di questo mondo , Beliar.
    D’altronde il governo russo è esattamente come un governo fabiano. Il governo della Giordania Marittima è esattamente “illuminista” e figlio delle innovazioni ottocentesche.
    Dove sarebbe lo scontro fra diverse fantomatiche civiltà? Credo che i supposti valori ( sostenuti di facciata ma non reali, basti sapere che il piano Kalergi in Europa è ai primordi mentre invece in Russia è realtà da 30 anni e con Putin non si è fermato ), i finti riferimenti religiosi, sono ben poco od anzi nulla rispetto al funzionamento degli apparati statuali che ci vogliono far credere siano alternativi l’uno all’altro.
    Inoltre ricordo che la Terza Roma non è mai esistita, che i russi stanno all’ortodossia come i germanici al cattolicesimo latino, e che guardacaso a dirla bene l’occidentalismo russo fu una realtà per quanto ambiguo, e con i soviet ne abbiamo avuto un fulgido dispiegarsi.

    Ora le pur belle simbologie dell’Isola Verde, per dire, cosa c’entrerebbero con il dualismo di riferimento? Cosa poi potrebbe affatto entrarci con una visione imperialista che per natura escluderebbero invece?
    Se volete visto che per diletto ci sto giocando, a quando la riscrizione razzialista della faccenda?

    D’altronde credi davvero che gli USA abbiano mancato gli appuntamenti o non sarebbe meglio sostenere che essi siano solo stati usati ed ora vengano abbandonati a sè stessi? Possiamo accontentarci solo della loro goffezza ora e tracotanza prima, e magari mollezza dopo?

    Saluti

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