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Alle femministe piacciono i bei maschioni

Alle donne piacciono gli “stronzi”: chi non si è mai imbattuto in tale sentenza divenuta proverbiale, che sfortunatamente ora è pure confermata dalla scienza? Ebbene, sempre la scienza (il solito team di ricercatori del Kansas City) ultimamente ha scoperto che anche quelle donne che si definiscono “femministe” preferiscono accoppiarsi con uno “stronzo” piuttosto che con un “compagno di strada” (cioè quello che va alle loro manifestazioni vestito di rosa o arcobaleno).

Sono numerosi gli studi a cui possiamo riferirci. Per citare i più recenti, possiamo ricordare quello del politologo di Cambridge Rolfe Daus Peterson, Gli effetti dell’attrazione fisica sulle opinioni politiche (dicembre 2017), il quale ha incontrato una discreta fortuna nella stampa americana per aver attestato la maggiore avvenenza del bel maschione “conservatore” rispetto all’effeminato “progressista”.

Il secondo, Benevolent Sexism and Mate Preferences: Why Do Women Prefer Benevolent Men Despite Recognizing That They Can Be Undermining?, è stato redatto da Pelin Gul e Tom R. Kupfer per il “Personality and Social Psychology Bulletin” (giugno 2018). La ricerca, proposta al grande pubblico dalla rivista “Psychology Today” (Feminists Think Sexist Men Are Sexier than “Woke” Men, 12 dicembre 2018), dimostra come un “sessismo benevolo” risulti attraente indipendentemente dalle idee politiche del soggetto femminile: “Women who were both more and less feminist displayed similar levels of attraction to sexist men”.

Esistono però anche una serie di corollari, dai sondaggi dove le donne dell’élite progressista confermano di preferire un maschio dello schieramento opposto, fino alle affermazioni delle femministe stesse, che ormai proclamano apertamente il proprio desiderio per il macho.

Come esempio più pacchiano per quest’ultimo punto, segnalo l’articolo del “Washington Post” I’m a feminist who’s attracted to ‘manly men’ (“Sono una femminista attratta dagli uomini virili”, 13 settembre 2016), del quale mi limito a riportare l’incipit per non irritare eccessivamente il lettore:

«Dopo pochi minuti dall’incontro, quest’uomo conosciuto su un sito di appuntamenti mi chiede di togliermi gli occhiali da sole in modo da poter vedere i miei occhi. Io obbedisco. Nelle due ore in cui siamo stati insieme, ha continuato a mettermi le mani sul culo, con la scusa di farmi varco tra la folla. Non mi ha neppure chiesto il permesso di massaggiarmi le spalle, come se avesse il diritto di toccare il mio corpo.
In quanto scrittrice femminista, sono al corrente che questi atteggiamenti contraddistinguono l’arroganza maschile e denotano una mancanza di rispetto verso le donne: eppure, ero eccitata. Sono sempre stato attratta dagli uomini dominanti».

Cercando il nome dell’autrice (Shannon Lell) sono saltate fuori altre testimonianze dirimenti, per esempio quella in cui racconta di aver lasciato il suo marito troppo “colletto bianco” ed essere andata a festeggiare con un bell’orgione a Las Vegas (dimenticando i suoi due figli per una settimana), oppure quando si è trovata un forzuto carpentiere come compagno (che poi l’ha scaricata sua volta).

Ok, a posto così! Tralasciamo altre “perle”, come quella della “femminista radicale” Julie Bindel che sente il dovere di giustificare una passione per il rap misogino e machista degli afroamericani, le cui rime sul violentare e pestare le donne la esaltano (nonostante l’età avanzata) come nessun’altra cosa al mondo (il suo alibi: “I don’t think that because a woman is a feminist all her actions are too”).

L’accoppiamento femminista/rapper sembra essere peraltro una costante, come dimostra la relazione tra la modella Amber Rose (acclamata dai media come volto nuovo del girl power) e il “poeta” 21 Savage (“specializzato” in stupri e sparatorie), che per giunta è diventato una barzelletta dopo aver partecipato alla kermesse super-femminista Slut Walk organizzata dalla fidanzatina.

In fondo il discorso si è capito: l’unico a essere “obbligato” al femminismo è il maschio beta. Il “bel maschione” invece può dire (e fare) letteralmente quello che vuole: come il giocatore di football americano qui sotto che per aver descritto la sua moglie ideale (“una che pulisce, cucina, guadagna tanti soldi, sta in casa, mi fa fare quello che voglio”) riceve un’ovazione dalle donne nel pubblico…

Le esperienze personali di molti di noi ovviamente confermano questa ipocrisia femminista del predicare bene e razzolare male: gli uomini che rispondo al quotidiano stillicidio dei media e rinunciano alla “mascolinità tossica”, respingono gli “stereotipi di genere” e accettano di “femminilizzarsi” in senso “positivo” (dal mettersi il mascara allo stirarsi i vestiti), in cambio non ottengono che umiliazioni ed emarginazione.

Non si può tuttavia ridurre il problema al fatto che le femministe non la diano mai ai “femministi”, perché in tal caso potrebbero comunque invocare qualche “diritto” speciale oppure fare appello (non a torto) all’eventualità che molti maschi si atteggino a “filogini” solo per rimorchiare: in effetti, è emerso negli ultimi tempi l’altissimo numero di predatori sessuali tra tali “femministi” (probabilmente obbedienti lo stesso principio che porta un pedofilo a diventare prete, allenatore o pediatra); ricordiamo en passant che lo stesso Weinstein in pubblico si proclamava “il più grande femminista di tutti i tempi”.

Da questo punto di vista è ovviamente legittimo “diffidare” di chi fa tanto il paladino dei diritti delle donne. Altro conto però è acconsentire al moltiplicarsi dei “cattivi esempi” che procede di pari passo con la commercializzazione della questione femminista: una deriva che conduce non solo al divieto di qualsiasi critica (o almeno auto-critica), ma addirittura alla glorificazione delle manifestazioni più palesi di ipocrisia come trofei di un’incessante “emancipazione” (il fatidico empowerment, che inglese vorrebbe dire anche “responsabilizzazione“). È inevitabile dunque che tale andazzo abbia come conseguenza una progressiva e ficcante ridicolizzazione del femminismo, non per un ritorno del “maschilismo” ma per il soverchiante numero di contraddizioni e paradossi che attualmente fanno delle sue rappresentanti delle barzellette viventi.

(Black pill comics)
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