Qualche breve considerazione sul volume di Marco Fraquelli, Altri duci. I fascismi europei tra le due guerre (Mursia): non prendetela come una recensione, poiché nonostante il titolo accattivante e la mole imponente, la qualità del saggio è così bassa da non meritare che poche righe di critica.
Per cominciare, si rileva che mettere insieme testi del genere è attualmente una delle operazioni editoriali più comode, poiché basta fornire una cornice politicamente corretta al materiale già elaborato in precedenza da quegli storici che non hanno avuto la fortuna di pubblicare per editori “presentabili” (trovando un appiglio solo in Settimo Sigillo, Ciarrapico, All’insegna del Veltro, Ritter, Novantico, Società Editrice Barbarossa eccetera) e poi assumersi tranquillamente il merito per l’originalità delle proprie ricerche.
Non nego che l’iniziativa della Mursia sia comunque coraggiosa, ma dal punto di vista scientifico il testo in questione (come tanti altri) non aggiunge nulla a quanto già scritto, per esempio, da Michele Rallo nel mastodontico L’epoca delle rivoluzioni nazionali in Europa. Si potrebbe dire anzi che, più che aggiungere, l’autore “toglie” qualcosa a tutti gli altri, in quanto non si perita di rimarcare continuamente che le fonti dalle quali ha attinto a piene mani sono “agiografiche” e “acritiche”.
Trovo tale atteggiamento particolarmente fastidioso (e anche intellettualmente scorretto, seppur, come ho detto, molto politically correct – questa è l’unica “correttezza” che sembra soddisfare gli studiosi italiani), non perché non sia vero (anzi!) che nelle pubblicazione di “estrema” lo spirito militante prevalga quasi sempre sulla serenità del giudizio storico, ma perché non ha senso chiamare in causa autori dichiaratamente neofascisti e poi sputtanarli regolarmente.
Se queste fonti sono così inquinate e maleodoranti, perché lo storico continua ad abbeverarsi ad esse? Forse perché è più comodo sfruttare citazioni di seconda mano che non risalire a quelle originali? La polemica può sembrare pretestuosa, ma trovo singolare che per nessuno dei fascismi affrontati, l’autore si preoccupi di citare almeno un testo in lingua originale: certo non si può pretendere che per mettere insieme un volume del genere uno debba conoscere l’albanese, il finlandese o l’ungherese, ma in molti casi gli stessi intellettuali “maledetti” che lui cita sono andati a studiarsi il romeno o il croato proprio per approfondire i testi e le personalità di Codreanu o Pavelić.
In ogni caso, Altri duci potrebbe persino meritare la sufficienza come testo divulgativo se l’autore non avesse “dimenticato” di dedicare un capitolo al fascismo ucraino. Infatti Fraquelli, dopo aver destinato decine di pagine al fascismo islandese, lettone, lussemburghese e macedone, liquida la questione del collaborazionismo ucraino in alcune righe del capitolo ventitreesimo (“Tartari e cosacchi. Il fascismo russo”).
Con tutto il rispetto per le gloriose gesta dei camerati islandesi e lussemburghesi, non sarebbe stato meglio soffermarsi sulle radici dell’attuale revanscismo in quella parte d’Europa dove è in corso una guerra civile? A dirla tutta Fraquelli qualche parola la spende sulla questione («[Gli] ultra-nazionalisti ucraini di estrema destra dello Svoboda e del Pravy Sector […] si autodefiniranno come legittimi eredi di Bandera» [p. 407]), ma oltre a tralasciare che già nel 2010 il governo Juščenko aveva proclamato Bandera “eroe nazionale”, dopo poche pagine lo storico tenta neanche troppo velatamente di qualificare Putin come “neofascista” (p. 410). In un testo in cui l’autore si impegna fino ai limiti della pedanteria a distinguere il fascismo “vero e proprio” dai movimenti semplicemente autoritari, conservatori, paternalistici eccetera, questo collegamento suona più comico che temerario, in quanto il lettore che volesse prenderlo sul serio dovrebbe considerare Dollfuss, Franco e Salazar come non-fascisti e Putin come fascista (risum teneatis, amici?).
Il punto più basso di “scorrettezza” (sempre intellettuale) è raggiunto nel capitolo dedicato al fascismo sloveno, che in realtà si rivela essere una reprimenda contro il ricordo “istituzionalizzato” della tragedia delle foibe – in questo caso l’autore si scaglia apertamente contro i “foibologi” (p. 443) e bacchetta tutti quelli che ne parlano “fuori contesto”, persino… Giorgio Napolitano (sic!, p. 561 leggere per credere).
Che altro aggiungere? Personalmente non sono contrario a proposte editoriali di questo genere, ma se si vuole “fare gli splendidi” allora si utilizzino in primis solo fonti “ideologicamente pure” (così son tutti contenti) e poi si cerchi di aggiungere qualcosa di originale alle ricerche condotte da altri.
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