Site icon totalitarismo.blog

Amministrazione Biden già a pieno ritmo: colpi di stato e rivoluzioni colorate in mezzo mondo

Il cambio di potere a Washington ha innescato un effetto domino sugli stati appartenenti alla sua area di influenza: abbiamo visto il caso turco, con il povero Erdoğan alle prese con i gruppi LBGT che si sono intestati una rivolta studentesca e sembrano pronti a inscenare una Gezi Park “arcobaleno”.

Abbiamo poi visto anche quanto accaduto in Birmania, dove i militari sono intervenuti all’ombra degli enigmatici legami tra amministrazione Biden e Pechino, sottovalutando però le forme di attivismo ispirate all’estetica americana, risvegliate dopo la tregua trumpiana. I sostenitori di Aung San Suu Kyi sono infatti scesi in piazza prendendo a prestito il saluto a tre dita della saga Hunger Games.

(Sempre nel sudest asiatico, ricordiamo en passant le proteste anti-monarchiche della Thailandia)

Passando alla nostra Italia, era inevitabile un contraccolpo anche da queste parti: il golpe morbido che ha portato al governo l’ennesimo tecnocrate, Mario Draghi, è a tutti gli effetti un sintomo dell’insediamento di una nuova amministrazione oltreoceano. D’altro canto Draghi è da considerare uomo di Biden, nonostante il suo operato a guida della Banca Centrale Europea abbia sistematicamente vanificato ogni sforzo di Obama di riallineare le politiche del Vecchio Continente a quelle atlantiche (ciò dovrebbe far dubitare sulle mitologie riguardanti le capacità del banchiere propagandate ora dalla stampa).

Questi rivolgimenti a orologeria fanno riemergere il ruolo fondamentale dei social network nel fomentare rivolte, fungendo da “aggregatori” (lato sensu) per gruppi assolutamente marginali a livello politico e sociale, ma capaci di produrre parecchi danni una volta trovata l’amalgama tecnologica. A riprova di ciò, il fatto che le avanguardie delle sollevazioni nei vari Paesi ora siano quasi esclusivamente femministe e omosessuali/LGBT: come esempio al momento possiamo citare Argentina, Bielorussia, Brasile, Messico, Polonia, Porto Rico, Russia, Tailandia e Turchia.

Pare che tale connotazione sorga tuttavia principalmente da una questione di “stile”: i democratici prediligono gestire il nuovo disordine mondiale con guerre civili a bassa intensità, lesbiche, studenti, trans, ong ecc ecc. Il loro scopo finale dovrebbe però essere quello di instaurare governi amici con i quali trattare nella maniera più agevole possibile: a conti fatti però sono proprio i “mezzi” a non giustificare i fini.

La predilezione dei metodi golpisti porta regolarmente a erigere giganti dai piedi d’argilla: pensiamo all’insignificante Navalny sostenuto con fanatismo esasperante solo perché dovrebbe in qualche modo “normalizzare” la Russia a mo’ di uno Eltsin redivivo. Più che una esibizione di forza, un’ammissione da parte di Washington della propria incapacità a favorire una transizione “vellutata” e assennata (considerando che comunque Putin, come qualsiasi leader, non può durare in eterno).

Siamo costretti a concludere che gli americani sono incapaci di gestire il proprio spazio imperiale, o perlomeno di comportarsi con un minimo di criterio: deve tutto essere sempre all’insegna del vandalismo, del disturbo della quiete pubblica e dell’oltraggio alla pubblica decenza. I cinesi cominciano a capirlo e per questo negli ultimi anni la loro propaganda punta sulla dialettica tra ordine e caos. I disastri nel Nord Africa, in Medio Oriente e nell’Est Europa fungono da eccellenti spauracchi verso le tentazioni di “rivoluzioni colorate” nell’area di influenza pechinese, mentre la gestione “pulita” delle rivolte a Hong Kong, in parte consentita anche dall’assoluta velleità con cui il vangelo occidentale viene introiettato in masse piuttosto refrattarie, funge ormai da contraltare virtuoso all’instabilità americana.

Exit mobile version