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Anche Kevin Spacey avrà qualcosa da insegnare agli angeli?

In conformità alle direttive attuali, ho cancellato tutti i post in cui avevo nominato Kevin Spacey, che poi a conti fatti erano solo quelli dedicati a House of Cards, perché come attore obiettivamente non sono mai riuscito a sopportarlo (ma solo “in tempi non sospetti”, come si dice). In realtà, di fronte alla demonizzazione in atto, preferirei esprimere qualche giudizio controcorrente, ma in questo momento mi vengono in mente solo cose negative: per esempio, ricordo di aver usato più volte l’aggettivo “viscido” per descriverne lo stile di recitazione, senza però mai sospettare che l’etichetta si sarebbe adattata perfettamente anche alla sua condotta privata. Del resto, ammetto candidamente di non capire molto di cinema (ma penso si fosse già capito che non ci capisco), quindi i miei giudizi lasciano il tempo che trovano…

Tuttavia non mi piace neppure maramaldeggiare, perciò mi sento in qualche modo obbligato a spendere due parole in favore del camerata Spacey: in primo luogo, che sia un artista eccellente non credo possa essere messo in discussione. È assolutamente pacifico che, senza il suo contributo, una serie strampalata come House of Cards non avrebbe superato l’episodio pilota (perciò è sconsigliato di fare una nuova stagione chiamando Christopher Plummer).

Voglio dire, chi potrebbe rendere credibile un copione in cui si capisce sin dall’inizio che il protagonista è uno stronzo? Invece di giocare sulla natura misteriosa e ineffabile del politico, gli sceneggiatori spiattellano tutto nella prima scena: o, per meglio dire, sono praticamente “costretti” a farlo proprio perché Spacey è in fondo l’unico vero attore della serie (nei Soprano, tanto per fare un esempio a caso, l’ultima delle comparse era un certo Peter Bogdanovich). Non si può creare alcuna ambiguità né nuance, perché il dialogo diretto con lo spettatore diventa una via obbligata, quasi una necessità strutturale – pensiamo solo al fatto che il coprotagonista maschile, Michael Kelly (quel “Doug” che parla sibilando), nei Soprano (ancora) faceva la comparsa di una comparsa (era un agente dell’FBI saltato fuori negli ultimi episodi nel ruolo di poliziotto cattivo ma sfigato). Peraltro lo stesso Spacey risente alla fine di questa mediocrità diffusa: in certe sequenze riemergono i vezzi indissolubilmente legati all’ingombrante personaggio di American Beauty (come l’ossessione per la ginnastica da scantinato o le peregrinazioni nelle immense cucine americane) che rendono la sua interpretazione un po’ troppo di maniera.

Inoltre la serie riflette la paranoia tutta anglosassone dei private vices –ironia della sorte!– che dovrebbero trasformarsi automaticamente in public benefits: perciò il Presidente degli Stati Uniti è “costretto” a far cose che non verrebbero in mente neppure al più svitato dei complottisti. Questo è sicuramente il punto più controverso: perché esagerare fino al parossismo le malefatte di un uomo politico rendendo totalmente inverosimile l’intera serie? Siamo al cospetto dell’ennesimo esempio di quello che Isaac Deutscher, recensendo 1984 di Orwell, definì mysticism of cruelty (cioè la tendenza ad annientare un’allegoria portandola all’estremo)? Non è allora un caso che l’Iran l’abbia mandato in onda per dimostrare quanto sono cattivi e corrotti gli americani.

Si potrebbe quasi dire, provocatoriamente, che le perversioni segrete di Spacey si siano rivelate una manna per gli sceneggiatori, avendo loro consentito di svicolare da una classica impresa sisifea: ormai il continuo ricorso ai “colpi di scena” (di certo esiste un termine più tecnico e astruso per indicarli, tipo plot twist, ma ho detto che non so un cazzo), era divenuto l’unico espediente per tenere in piedi la serie. Dopo il machiavellismo for dummies delle giornaliste spinte sotto i treni, degli sputi in faccia alle statue del Cristo e delle pisciatine sulle tombe, si era evidentemente esaurita la vena.

Anche dal punto di vista prettamente politico, una dimensione forse non del tutto estranea a quanto ora sta accadendo (non dimentichiamo che l’affaire Spacey segue immediatamente l’affaire Weinsten, legatissimo al clan dei Clinton), la serie aveva toccato il punto più basso con la puntata dedicata nientedimeno che alle Pussy Riot, una comparsata tanto imbarazzante quanto controproducente (sorvoliamo sui motivi per cui la first lady, non meno spregiudicata del consorte, riscopra la sua sensibilità solo quando parla dei diritti dei gay russi); en passant, anche il tentativo subliminale di ridurre gli investimenti pubblici a una regalia elettorale è stato abbastanza meschino, alla luce di quello che le politiche keynesiane hanno fatto per gli States anche nell’ultima crisi (l’America Works come parodia dell’Obamanomics è un insulto all’intelligenza degli americani – e ce ne vuole!).

Verosimilmente però il passo falso più clamoroso (per tornare  anche alla prospettiva artistica) è stato quello di annullare uno dei pochi tocchi di originalità della serie, ovvero il fatto che il villain alla Casa Bianca per una volta fosse un dem (e non il solito orco nixoniano o reaganiano), spingendo gli Underwood nel tritacarne della propaganda con l’assurdo paragone tra Frank e Donald Trump (quando invece la maggior parte degli spettatori aveva già riconosciuto nella diabolica coppia una versione “gotica” dei Clinton).

Tolto tutto questo, credo che l’unico elemento positivo rintracciabile da ultimo in House of Cards sia il giovamento che lo stile di Spacey ne ha tratto (purtroppo repentinamente vanificato dalla fine della sua carriera): in particolare i frutti di questa esperienza “presidenziale” si sono potuti subito apprezzare in Elvis & Nixon (2016), pellicola dedicata al leggendario incontro alla Casa Bianca tra il Re del Rock e il Presidente più demonizzato negli Stati Uniti dopo Trump.

Come ho già rilevato, mi sentire ipocrita a “rivalutare” l’intera filmografia dell’attore per anticonformismo: tuttavia questo film, pur non essendo un capolavoro, è uno dei pochi che riguarderei solo per godermi (no pun intended) la recitazione di Spacey, la quale rappresenta uno dei rari casi in cui arte, storia e vita giungono a combaciare quasi perfettamente. Per spiegarmi meglio, si tratta di un’eventualità talmente inconsueta nel cinema che molti registi si accontentano di mettere in scena i propri fallimenti nel perseguirla (vedi Looking for Richard di Al Pacino o Lost in La Mancha di Gilliam). In Elvis & Nixon, invece, Spacey riesce a essere Frank Underwood senza abbandonare per un istante la maschera di Richard Nixon, eppure lasciando intendere allo spettatore di trovarsi al cospetto sempre della sua persona (in senso etimologico): Kevin Spacey uno e trino, insomma.

È un gioco intricato e meraviglioso che probabilmente, col senno di poi, solo un ammiratore tardivo come il sottoscritto può apprezzare (mi pare infatti che la critica sia rimasta tutt’altro che entusiasta). In tal senso, Elvis & Nixon assomiglia quasi a un canto del cigno, (e non solo perché si sta già verificando una completa ostracizzazione del protagonista): forse esagero, però non è singolare che, dopo essersi perfettamente calato nel personaggio di Nixon, Spacey abbia dovuto affrontarne lo stesso destino? A quanto pare la “magia” del cinema non è soltanto metaforica…

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