Ancora su musica e morte

In questi giorni, a commento della strage alla discoteca di Ancona, si è sentito spesso ripetere la frase “non si può morire per un concerto”: credo che in realtà il concetto sottintenda la precisazione “del genere”, cioè che il vero peccato sia rappresentato dal fatto che qualcuno abbia dovuto perdere la vita per della musica di merda.

Nell’immaginario collettivo infatti esiste un singolare e misterioso connubio tra musica e morte, attraverso il quale è inconsciamente tollerata (se non consentita) l’eventualità di morire per la musica: l’importante è che sia la “musica giusta”, come l’attacco della Quinta sinfonia che apriva le trasmissioni di Radio Londra o la Cavalcata delle Valchirie ad accompagnamento di un assalto a un villaggio vietnamita.

Non è un caso che tutta la “musica popolare” dei periodi di pace trovi le sue radici nei suoni dell’era precedente, creati ad arte per ispirare un popolo nelle battaglie: il legame è talmente paradossale che si può dimostrare anche a contrario, per esempio nelle centinaia di canzoni scritte contro la guerra in Vietnam che conservano l’idea di mobilitazione di massa nei ritmi stessi.

All’argomento ho dedicato un paio di mezzi, ai quali rimando solo per non ripetermi:

Ars longa vita brevis. Musica e morte nel 2016

Mozart non ha venduto più dischi di Beyoncé

La musica è un veleno possente e la verità inconfessabile è che tutti noi preferiremmo che venisse utilizzata per trasformare i nostri figli in filosofi, guerrieri e lavoratori: ma al contrario questi suoni e ritmi così accattivanti e all’avanguardia sono puntualmente indirizzati all’annientamento di qualsiasi elemento positivo nella gioventù. È peraltro sempre più marcato il movimento verso il basso di tale fenomeno: a ogni generazione l’età e la classe sociale dei ragazzini diminuisce in contemporanea con l’aumento della volgarità, della violenza e dell’insensatezza dei pezzi usati per “sobillarli”.

Alcune nazioni stanno tentando di arginare la deriva con vari espedienti: per esempio, in Polonia si favorisce il rap nazionalista, in Corea del Nord si rinnovano periodicamente i canti patriottici, negli Stati Uniti sono stati creati tanti sottogeneri musicali per sostenere Trump (come la Trumpwave) e la destra alternativa è impegnata nella appropriazione culturale di tutto l’esistente.

Esiste poi ovviamente una soluzione più immediata, quella che per semplificare definiremo “all’islamica”: proibire tutto e subito. Dalla prospettiva da cui guardiamo il problema, cioè quella di un’Europa che difende la propria “eccezionalità culturale” mentre trasforma ogni spazio pubblico in una no-go zone di spaccio, trap, scippi, spray urticante e vandalismo assortito, è forse l’unica  attualmente proponibile a livello politico e sociale.

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