In un improvviso e inedito attacco di anglofobia, da inquadrare nel contesto della cosiddetta “post-Brexit” (i bei tempi delle apolicassi medio-progressiste che non comportavano alcuna delle conseguenze paventate), il Corriere della Sera, nel suo inserto culturale “La Lettura”, pubblicò nel 2017 una provocatoria analisi della lingua inglese dello scrittore Robert McLiam Wilson, che per qualche motivo inesplicabile -o forse no-, non è rintracciabile da alcuna parte né sul portale del quotidiano né nell’intero World Wide Web, sia italofono che anglosferico.
Nella sua arringa, Wilson definiva l’inglese “quella cosa che mille anni fa gli Angli e i Sassoni hanno inventato per parlare con gli invasori normanni”, riducendo l’idioma a pura e semplice espressione di rozzezza, sia a livello linguistico, con paragoni impietosi verso la “raffinatezza” del francese («Non ha congiuntivo né l’infinito del verbo can. Se non si ha pouvoir, non si può avere molto»; «Non è possibile avoir raison in inglese, troppo cartesiano e ragionevole: You are right, siete nel giusto, siete nel diritto, siete a destra») sia, soprattutto a livello culturale («Chiedete a un anglofono di spiegarvi un concetto filosofico. Finirà col sembrare un bambino di otto anni che cerca di raccontare una barzelletta sporca. […] L’inglese odia le idee, non riesce a metabolizzarle. E non si può costruire un sistema di pensiero, in questo modo»).
Da qui lo scrittore di Belfast estende il suo anatema alla cultura protestante stessa, dal movimento dei Know Nothing, i “nativisti” americani della metà del XIX secolo che volevano fermare l’immigrazione irlandese (“papista”), il cui nome egli comunque riconduce erroneamente a un elogio dell’insipienza (mentre era un invito all’omertà per gli appartenenti interpellati dai non iscritti all’organizzazione sulle proprie attività: Know Nothing “Non so nulla”), fino a risalire all’essenza stessa dell’Englishness in uno strano miscuglio di motivi religiosi, culturali ed etnici:
«La questione ha più a che fare con i protestanti che con la lingua. Quelli dell’Europa continentale non contano. Io penso agli inglesi irrigiditi, agli scozzesi depressi, ai vaneggianti abitanti dell’Ulster e ai folli americani. Il mondo di lingua inglese è così profondamente protestante che anche i cattolici e gli ebrei finiscono per essere presbiteriani. Quasi tutto quel che riguarda la cultura anglosassone si può spiegare con una mentalità chiusa nell’ambito di una chiesa locale e individualista, di cui non è mai veramente riuscita a liberarsi».
A mio parere anche nel campo delle arti, dalla letteratura (penso alla “forma” stessa del romanzo) alla musica (cantare in inglese conferisce quel tocco di completezza che è sempre mancato tradizionalmente al Regno Unito, non a caso avarissimo di compositori classici rispetto al Continente) fino al cinema, tale mentalità si esprime perlopiù in modi inconsci e insospettati.
Questo però è un tema troppo complesso da affrontare in tale sede. Torniamo alle polemiche sull’anglicorum: ancora all’epoca della Brexit sempre il solito Corriere venne bersagliato di lettere (qui e qui degli esempi) di lettori che si erano scoperti fieri nemici della Perfida Albione e desiderosi di cacciare il suo infido idioma dall’augusta schiera delle favelle europee.
A tali exploit rispose l’ex ambasciatore Sergio Romano, ai tempi tenuto ancora in considerazione come “Venerato Maestro” ma in seguito retrocesso di casta a causa del suo “putinismo” (a fronte di una posizione “filorussa” rimasta sempre coerente almeno nella forma), che giustamente ricordò ai novelli epigoni di Mario Appelius (Dio stramaledica gli Inglesi!) un paio di cosucce:
«L’inglese non è soltanto la lingua del Regno Unito. È anche la lingua degli Stati Uniti. Se la City di Londra declinasse, la finanza internazionale parlerebbe pur sempre la lingua di Wall Street».
«La lingua ufficiale degli irlandesi è il celtico, ma pochi lo parlano e tutti usano l’inglese. Toccherà quindi all’Irlanda, se la Gran Bretagna ci abbandona, conservare l’inglese anche formalmente fra le lingue dell’Unione».
Lasciando da parte che il “celtico” in realtà sarebbe il gaelico (ma è comunque un bel modo ottocentesco per definirlo) e che l’inglese è lingua ufficiale anche di Malta, cerchiamo di giungere a una prima conclusione: nonostante il tono apologetico assunto nei confronti della Gran Bretagna (che dalle parti di Via Solferino ruleggia sempre e comunque, come afferma il noto canto patriottico), è un dato che il buon Romano abbia poi reagito alla Brexit come il protagonista di quell’altra celebre canzone patriottica (stavolta partenopea, Chella llà), affermando testualmente che con essa finalmente veniva rimosso l’ostacolo londinese per una vera unificazione continentale.
Se non altro nell’esprimere la propria opinione, il diplomatico è stato meno ambiguo di altri (almeno questo gli fa onore, o forse era proprio un lamento da amante tradito?): continuano però a latitare le considerazioni, sia a caldo che a freddo, degli eterni anglomani, che nonostante il profluvio di panzane con cui hanno inondato giornali e televisioni, non hanno ancora chiarito il punto fondamentale: può l’anglofilia essere subordinata all’europeismo? O, per esprimerci in termini che anche i gazzettieri possono capire: Londra buona o cattiva?
È noto che in Italia, per una regola non scritta (o scritta su qualche pergamena nascosta ai comuni mortali), i media nazionali non possono parlar male degli inglesi; anzi, ogni telegiornale deve dedicare almeno tre servizi a settimana a qualche appartenente della famiglia reale. Insomma, non è possibile indire un referendum per abolire l’influenza della monarchia inglese sul nostro Paese.
Va bene così, tanto si sa che con Albione non si gioca mai ad armi pari. Però prima o poi la questione andrebbe posta in termini espliciti: se dobbiamo morire per Bruxelles, l’eurocrazia e la moneta unica, non si potrebbe almeno tagliar corto con questa anglofilia da mentecatti, e cominciare da una parte a tornare a esprimersi in una lingua franca più consona a una sensibilità europea (penso più al latino che all’esperanto), e dall’altra restituire all’inglese la sua dignità di lingua di un popolo, più che di una cultura o una forma mentis.
Affrontando apertis verbis (in tutti i sensi!) la questione linguistica, nonostante la diffusione dell’inglese “ciancicato” abbia precedenti imbarazzanti per gli europeisti (tra le altre cose, ricordo che a metà degli anni ’30 rimpiazzò il francese come seconda lingua nelle scuole tedesche per volontà di Adolf Hitler che lo considerava più affine allo spirito germanico), non si può negare che l’anglicizzazione spinta nasca principalmente da necessità pratiche, soprattutto quando declinata in termini di “americanizzazione”.
Si pensi, per esempio, al ricorrente dibattito riguardante la “smania anglofona” dilagante nelle università italiane: essa genera comprensibili timori in quelli che la vedono come un cedimento al pensiero unico o alle mode intellettuali. Alcuni critici rilevano peraltro che nella nostra realtà lavorativa l’inglese non è una lingua più richiesta di altre, dal momento che l’Italia non può campare semplicemente come “villaggio turistico del mondo” (in tal caso basterebbe solo un po’ di anglicorum), ma per sopravvivere ha bisogno di una mediazione culturale di più alto livello, sia per consolidare la vocazione esportatrice (ormai strada obbligata, nonché vicolo cieco, nel sistema europeo) che per integrare efficacemente i numerosi stranieri presenti sul territorio (altra strada obbligata se vogliamo rimanere la “Terronia” dell’UE).
Credo esista un motivo di fondo, non del tutto esplicitato, di questa improvvisa necessità di “anglicizzarsi”, e riguarda il declino delle facoltà umanistiche statunitensi in atto da decenni, già descritto impietosamente in tempi non sospetti da Allan Bloom in The Closing of the American Mind (1987).
Dal punto di vista educativo il nostro Paese può vantare, in diversi campi, eccellenze in grado di attrarre migliaia di studenti stranieri: sembra quindi che tale scelta sia dettata anche dall’esigenza di intercettare l’enorme massa di giovani provenienti dalle economie emergenti che cominciano a diffidare di un’educazione “all’americana”. Osservando la situazione da questa prospettiva, si comprende anche come il pericolo più grande non sia tanto l’americanizzazione linguistica, quanto quella culturale (che tra l’altro si potrebbe portare a compimento anche solo utilizzando la lingua italiana, come dimostrano i vari studi culturali, studi di genere ecc.).
Dunque non c’è solo la lingua di Wall Street o della Polizia del Kansas City o dei nazisti dell’Illinois. O, per meglio dire, queste possono sicuramente fornire un adeguato supporto nell’ipotesi assurda che a difendere l’ufficialità dell’inglese nell’Unione Europea rimanga solo Malta (con l’Irlanda impegnata a valorizzare il “celtico” per motivi irredentistici); ma pure in tal caso l’imposizione di una nuova lingua franca non consentirebbe di eludere alcune dinamiche obbligate.
Per chiudere, almeno per il momento, la questione dell’idioma gentile, croce e delizia di chi lo parla, mi piace ricordare che, di fronte al pericolo della sua scomparsa o di una riduzione a dialetto, un Vincenzo Cerami -esprimendo la nuova mentalità sinistroide social-liberista post-89- sostenne che i suoi connazionali avrebbero dovuto esportare di più («Chi esporta più prodotti esporta più lingua»), oppure accettare di «diventare una colonia americana», perché se «è finito il latino, è finito il provenzale, pazienza: finirà anche l’italiano» (cfr. I Paesi più forti esportano insieme alle merci anche il loro vocabolario, “Il Messaggero”, 26 settembre 1989; ora in Pensieri così, Garzanti, Milano 2002, p. 93).
Mi imbarazza quasi rimarcare, a fronte di tali asprezze, che nei secoli uno dei “prodotti” italiani più esportati è stato proprio la lingua, attraverso l’arte, la letteratura, la navigazione, l’architettura, il teatro: lo prova, giusto per dire, il vocabolario che i musicisti di tutto il mondo (anche quelli americani) sono costretti a utilizzare. Di conseguenza, almeno per gli orchestrali dell’apocalisse dovrebbe valere ancora il motto: Il giorno della fine non ti servirà l’inglese.
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Dopo aver espresso amore incondizionato per la mia lingua, e avversione per quella cosa che i cosmopoliti definiscono “inglese” ma che in verità è solo un’infinta collezione di strafalcioni (anche nel mero ambito “commerciale” i globalisti all’amatriciana non sanno nemmeno pronunciare Nike, che assimilano ingenuamente a Mike o Like, oppure PayPal, che diventa all’occorrenza PayPaul o PaypAll, per non dire di recovery fund o smart working), credo di esser pronto ad affrontare finalmente altri due temi senza equivoci, ovvero da una parte l’esigenza di avere una lingua europea (se vogliamo continuare questa buffonata dell’unificazione continentale) e dall’altra la necessità di trattare l’inglese con un minimo di rispetto.
Riprendo dunque il filo del discorso dal Parlare in Europeo. È pacifico affermare che la “questione della lingua” in Europa non sia mai stata affrontata in maniera seria, anzi, per principio è stata considerata inesistente persino quando, per restare in tema, la Brexit l’ha presentata come realtà di fatto. A tal proposito, l’intellettuale americano Michael E. Jones durante un’intervista ha riportato un sapido aneddoto:
I had this discussion in Germany with friends, there were six of us, the only language we had in common was German. We had to talk German because that was the only language we had in common, and the lady who was the hostess said “Ich bin kein Deutscher, Ich bin Europäer”, I’m not a German I’m a European. And I said to her: ‘Well then tell me how you say ‘Where is the train station in European’. Well, she doesn’t know what to say at that point. You can’t be a European unless you’re a German”.
«Ho avuto una discussione in Germania con degli amici, eravamo in sei, l’unica lingua che avevamo in comune era il tedesco. Dovevamo parlare tedesco perché quella era l’unica lingua che avevamo in comune, e la signora che era anche la padrona di casa mi diceva Ich bin kein Deutscher, Ich bin Europäer, “Non sono tedesca, sono europea”. E allora io le ho ribattuto: “Allora dimmi come si chiede ‘Dov’è la stazione?’ in europeo”. Beh, non sapeva che dire a quel punto. Non puoi essere europeo se non sei un tedesco».
Sarebbe bello fare questo esempio nostro, magari condendolo con le caratteristiche della improrogabilità («Come si chiede “Dove sta il cesso” in Europeo?»). D’altro canto nemmeno il più insulso degli intellettuali “europeisti” si è mai sbilanciato a proporre una qualche soluzione all’assenza di una koiné: tutti troppo impegnati a difendere la libera circolazione di merci e persone (= macchine tedesche e ventenni subsahariani),, hanno trasformato in eresia qualsiasi proposta di unificazione che andasse al di là della moneta e del mercato.
Quando però ci si era ormai rassegnati all’idea che un ungherese e un danese avrebbero comunicato per sempre in broken English (col premio di consolazione dell’assenza di orecchie anglofone nel Parlamento Europeo), ecco baluginare un destino ancora peggiore, in una recente campagna pro-europeista “partita dal basso” (cioè pompata a bestia dalla grande stampa) sui social.
Alcuni portaborse wannabe hanno infatti lanciato l’hashtag #FBPE come acronimo di #FollowBackProEU, senza neppure controllare che la sigla non fosse già stata adottata da qualcun altro (come la Fédération Belge Entrepreneurs Paysagistes o il Florida Board of Professional Engineers):
Questa iniziativa dimostra come gli europeisti abbiano interiorizzato il grigiore delle istituzioni che idolatrano, certificando quindi l’esistenza di una sola ed unica lingua possibile per l’Unione: il burocratese.
Il punto viene indirettamente avvalorato anche dallo scrittore austriaco Robert Menasse nel romanzo La capitale (2018), quando mette in scena la faida tra il Partito Popolare Europeo (European People’s Party nella denominazione “ufficiale”) e la European Pig Producers, proprio in nome dell’acronimo EPP (perché “non è possibile che ogni volta che si cerchi i Popolari europei su Google compaiano dei maiali”): la discussione ha anche uno strascico in sede ufficiale, con gli europarlamentari che propongono TEPP (con l’aggiunta del “The”) ignorando che in tedesco significhi “stupido”, “sempliciotto”, a riprova che nemmeno un’interazione fatta solo di UE, EC, PPE, PSE, UEM, ECOFIN, OCSE, OSCE, potrà garantire la “pace perpetua”.
Le parrocchiette intellettuali sembrano tuttavia aver accettato di buon grado quel che ora definiscono Eurish, cioè “l’inglese degli europei dopo la Brexit”: la parlata che esprime l’essenza dell'(h)omo novus europeo, cioè “l’uomo d’affari, il turista e l’impiegato di hotel”, come riporta in un articolo ridicolmente neutrale ancora il Corriere. Contenti loro, contenti tutti.
Visto che anche solo abbozzare una pars costruens sembra praticamente impossibile, potremmo tentare di muoverci a contrario, cercando, come si diceva, di ripristinare la dignità della Lingua Anglica. Personalmente, anche per non dilungarmi, voglio limitarmi a citare l’immenso Jorge Luis Borges, che nel 1977, in una storica intervista all’intellettuale conservatore americano William F. Buckley Jr (ricordata soltanto per gli elogi alla Junta di “galantuomini” del generale Videla), ebbe l’ardire di ammettere che l’inglese è meglio dello spagnolo (anzi, “più raffinato”), motivando in tal guisa la sua affermazione:
“I find English a far finer language than Spanish, [… for] many reasons. Firstly, English is both a Germanic and a Latin language. Those two registers—for any idea you take, you have two words. Those words will not mean exactly the same. For example if I say regal that is not exactly the same thing as saying kingly. Or if I say fraternal that is not the same as saying brotherly. Or dark and obscure. Those words are different. It would make all the difference—speaking for example—the Holy Spirit, it would make all the difference in the world in a poem if I wrote about the Holy Spirit or I wrote the Holy Ghost, since ghost is a fine, dark Saxon word, but spirit is a light Latin word.
Then there is another reason. The reason is that I think that, of all languages, English is the most physical of all languages. […] You can, for example, say He loomed over. You can’t very well say that in Spanish.
[Buckley:] “Asomó?”
Well, no, no, they’re not exactly the same. And then you have, in English, you can do almost anything with verbs and prepositions. For example, to laugh off, to dream away. Those things can’t be said in Spanish. To live down something, to live up to something—you can’t say those things in Spanish. They can’t be said. Or really in any Romance language”.
[Il passaggio si trova a partire dal minuto 17 del video]
Il riferimento alla “fisicità”, qui elaborato solo a un livello formale (le preposizioni a cui accenna Borges in effetti conferiscono sempre una qualche dimensione spaziale all’espressione più astratta), è lo stesso che si può evincere, da una prospettiva “contenutistica”, dalle considerazioni di Robert McLiam Wilson da cui si è partiti: certo, è una caratteristica che può essere vista solo in negativo, ma che al contempo sarebbe suscettibile almeno di spiegare il motivo del “successo” dell’idioma, al di là dell’imperialismo britannico e dei bombardamenti americani, a livello mondiale. Naturalmente un discorso simile vale per la questione dei due registri, che McLiam Wilson involontariamente riporta alla radice di un gergo inventano dagli anglosassoni per comunicare con i normanni. Non è ammirevole che tale dinamicità sopravviva nei secoli?
Badate bene che si potrebbero infiocchettare elogi di questo genere per qualsiasi lingua (lo stesso Borges poi propone un discorso simile per il tedesco, che non può sviluppare perché non lo conosce bene come l’inglese). Tale esempio mi serviva solo per aiutare qualche lettore a superare tutti quegli inutili pregiudizi, positivi e negativi, che gli sono stati introiettati da decenni di anglomania coatta (inteso anche alla romana). Provate a riprendere l’inglese liberandovi della ridicola mentalità che lo imporrebbe come “lingua del futuro” o del “lavoro”, nonché degli ancora più penosi dogmi che lo spacciano come pidgin di un inesistente villaggio globale: considerandolo solo come una lingua al pari di altre, forse riusciremo a lasciarci alle spalle l’infinita era di anglismo jettatorio.