L’11 agosto la Conferenza dei Rabbini Europei ha protestato ufficialmente contro il cantante Justin Bieber, reo, secondo il Presidente Pinchas Goldschmidt, di aver fatto il “saluto nazista” durante un suo concerto a Helskinki. Ecco la dichiarazione del rabbino: “Il celebre cantante ha umiliato milioni di ebrei in tutto il mondo quando ha scelto di fare il saluto nazista, che simboleggia l’identificazione con i valori del partito nazista e del suo leader, l’oppressore degli ebrei Adolf Hitler”. Goldschimdt ha invitato dunque Bieber a scusarsi pubblicamente e ha chiesto alle autorità israeliane di annullare il suo concerto previsto a ottobre nello stato ebraico.
Ora, come si può vedere dal video qui sopra (riportato anche dal portale del Jerusalem Post), Bieber sta solo tenendo il microfono in alto mentre improvvisa una marcia che sembra poco ad aver a che fare col passo dell’oca. In effetti non c’è alcun saluto nazista. L’allarmismo dei rabbini appare a dir poco ridicolo (almeno per questa volta, giusto?).
Ma lasciamo correre. Io non conosco Justin Bieber, però intuisco che il suo enorme seguito sia dovuto più alle sue qualità estetiche che artistiche; in ogni caso sono al corrente che un paio di mesi fa ha dovuto spostare alcune date del suo tour mondiale per una paralisi facciale causatagli da una rara una malattia neurologica conseguente all’herpes zoster nota come “sindrome di Ramsay Hunt”.
Ora, siccome esiste una possibilità che tale sindrome sia stata causata dalla vaccinazione anti-covid (tanto che i famigerati fact-checker hanno dovuto riconoscere l’esistenza di tale effetto collaterale, attestato dagli studi), è probabile che lo sventurato Bieber sia finito nel mirino di qualche “congrega” nonostante non abbia mai accusato il vaccino per quanto gli sta capitando.
L’ipotesi è che il solo fatto di aver parlato esplicitamente del suo problema, senza nasconderlo per ragioni di opportunità (sociale, politica, mediatica), abbia fatto cadere in disgrazia il cantante agli occhi delle camarille covidiote. Come se, offrendo involontariamente uno spunto polemico, abbia dato un segnale di disfattismo all’opinione pubblica.
Del resto questo Justin Bieber, prima di diventare involontario simbolo dei no-vax o dei nazisti (ormai una endiadi per i media mainstream), aveva cercato in tutti i modi di piacere a chi comanda realmente, per esempio andando in pellegrinaggio alla casa di Anna Frank ad Amsterdam nel 2013: tuttavia in quell’occasione l’ingenuo giovincello pestò una merda gigantesca lasciando scritto sul libro degli ospiti “Spero che sarebbe stata una mia fan” (il termine usato è belieber, gioco di parole tra believer e il suo cognome).
Anche allora, come prevedibile, si scatenò la rabbia dei rabbini (perlomeno giustificata) e l’indignazione generale (seppur la direzione della casa-museo si schierò dalla sua parte): altri risvolti meno politicamente corretti che ne seguirono furono la reazione indignata sui social di altre belieber, che non sapendo chi fosse Anna Frank l’apostrofarono come “puttanella fortunata” per aver ricevuto il loro idolo direttamente a casa, nonché qualche meme di cattivo gusto da parte dei normaloidi, come quello che segue.
E siamo così finalmente giunti al punto: i meme su Anna Frank. Un argomento che prima o poi andava affrontato. Partiamo ancora dalla cronaca: lo scorso luglio un ristorante del Rhode Island ha postato sulla sua pagina Facebook un meme con protagonista la giovane vittima dell’olocausto, nel quale le viene fatto dire “Fa più caldo di un forno là fuori… e io dovrei saperlo!”.
A Rhode Island restaurant decided it was a good idea to post a meme referencing Anne Frank and it being "hotter than an oven out there".
We have no words.https://t.co/nxIkaPqD71 pic.twitter.com/oKVZyvMgab
— StopAntisemitism (@StopAntisemites) July 25, 2022
I gestori del ristorante hanno rimosso il post e si sono scusati. È necessario precisare quanto questo tipo di umorismo normie sia diffuso praticamente in tutto l’Occidente (peraltro è noto che Anna Frank, come molti altri prigionieri del lager in cui si trovava, sia morta di tifo e non direttamente in un forno crematorio). Se in Italia è però roba da Boomerwaffen e ultras, negli Stati Uniti invece è più mainstream, come dimostrano innumerevoli scene del cartone animato I Griffin (trasmesso in Italia da una rete Mediaset), in cui l’adolescente ebrea morta a Bergen-Belsen viene costantemente oltraggiata.
Notiamo che queste scene non hanno suscitato nemmeno un’alzata di sopracciglio da parte delle varie associazioni ebraiche d’oltreoceano (tanto meno quelle italiane), nonostante roba del genere venga trasmessa quotidianamente nelle fatidiche “fasce protette”. Ecco perché ci permettiamo talvolta si sospettare che dietro il vittimismo e l’indignazione a comando ci siano motivazioni politiche più che morali. Ma lasciamo andare anche questo.
Veniamo ai meme seri (non da normie) su Anna Frank: ultimamente ne circolano alcuni in cui la giovane viene ritratta con la pelle scura per ironizzare sulla pratica del blackwashing messa in atto dalla piattaforma Netflix (ovvero propagandare pellicole in cui attori di origine africana interpretano personaggi storici o di fantasia tradizionalmente non di colore, da Giulio Cesare ai samurai fino a Lupin).
Ecco, si dà il caso che come al solito la realtà supera i meme e Netflix sia nuovamente caduta in uno dei suoi “adattamenti” distribuendo Where Hands Touch, una struggente storia d’amore tra una ragazza afro-tedesca e un militante della gioventù hitleriana nella Germania del 1944: “Leyna, 15 anni, figlia di madre tedesca bianca e padre nero africano, incontra Lutz, un membro della Gioventù hitleriana, militanza obbligatoria per tutti i ragazzi ariani dal 1936. Legati dalla consapevolezza degli orrori commessi contro gli ebrei, Leyna cerca di evitare il destino dei tedeschi neri dell’epoca. Riuscirà a trovare un alleato in Lutz, lui stesso impegnato a combattere il destino che gli è stato imposto?”.
I meme sono così. Lasciamo correre per l’ennesima volta. Vorrei semmai concludere con qualche aneddoto personale, ai tempi in cui insegnavo nella scuola pubblica (cioè prima che mettessero il Green Pass per i docenti, ma in fondo non è passato così tanto tempo) e alle elementari mi trovai diverse a volte a dover partecipare alla cosiddetta “Giornata della Memoria”, che nel giro di pochi anni si è allargata fino a diventare la “Settimana della Memoria”.
Chiaramente in questa occasione si fa un gran parlare di Anna Frank (nel frattempo divenuta “Anne”, in onore dell’italianofobia) e capita di leggere talvolta qualche paginetta del Diario dalle antologie. Penso tuttavia che praticamente nessuno, nemmeno i docenti, abbia mai letto la versione integrale dell’opera, che comprende fantasie lesbo, autoerotismo e una accurata descrizione della propria vagina da parte di Anne. Probabilmente gli unici ad averlo fatto siamo io e quel deputato della Lega Nord che nel 2010 presentò un’interpellanza al ministro dell’istruzione chiedendo di proibirne la lettura in una scuola elementare brianzola («Vi è un passo nel quale Anna Frank descrive in modo minuzioso e approfondito le proprie parti intime e la descrizione è talmente dettagliata da suscitare inevitabilmente turbamento in bambini della scuola elementare»).
Fatto sta che una collega catto-comunista accoglie con entusiasmo l’iniziativa di un’alunna (di origine salvadoregna e più grandicella delle altre) di leggere appunto la versione integrale del Diario: quando però le noto in mano la più recente edizione Rizzoli, sento il dovere di avvertire l’insegnante dei passaggi “controversi”. Rivelazione che la turba (è comunque una puritana di sinistra) ma che al contempo le impedisce (per pigrizia?) di procurare alla discente un’edizione per ragazzi. A un mese dal Festival Scolastico dell’Olocausto, intercetto vari bigliettini che la ragazzina centroamericana (peraltro intelligente e molto educata) si scambia con la sua compagna filippina (altrettanto intelligente ed educata) nei quali si addebitano ad Anna Frank le pratiche sessuali più disparate. Che fare? Mi sono limitato a un rimprovero bonario (naturalmente in forma privata), senza voler impartire chissà quale lezione di alta moralità a delle bambine. D’altro canto ho pensato a intere generazioni allevate dai sessantottini annafrankisti col mito della dissacrazione, dello sberleffo e dell’irriverenza: quale scranno dello spirito avrei dovuto raggiungere per elevarmi a novello maestrino dalla penna rossa?
Un secondo episodio che mi viene in mente, sempre legato alle celebrazioni olocaustiche, riguarda la reazione di un alunno marocchino autistico che rimase letteralmente terrorizzato dalla storia di Anna Frank e in generale dai racconti dell’insegnante sull’olocausto, tanto da alzarsi in piedi e urlare a squarciagola in lacrime: “Non è vero! Non è successo veramente! È tutto falso!”. Il giorno dopo la madre, ipotizzando che la kermesse della memoria avrebbe occupato altre ore di lezione, ha gentilmente chiesto di portare il figlio fuori dall’aula. Anche qui, è difficile stabilire quale sia la scelta giusta: in un’epoca in cui nella scuola primaria (e non solo) si cerca di edulcorare, se non censurare, qualsiasi cosa, dai finali delle fiabe ai problemini di matematica, non si capisce perché si debba invece raccontare l’Olocausto dalla A di Auschwitz alla Z di Zyklon B (che poi, in sostanza, sarebbe l’unica lezione di storia extracurricolare, se escludiamo quello che i ragazzi apprendono durante le gite scolastiche: per il resto, i bambini italiani terminano la quinta elementare senza aver mai sentito nominare, tanto per dire, Cristoforo Colombo, Leonardo, Galileo o Garibaldi).
Bene, credo di essermi perso. Volevo solo scrivere due righe per avere una scusa per pubblicare dei meme su Anna Frank e invece siamo giunti a rimuginare ancora su tutto l’esistente. Se solo non fosse tutto così mediocre e trash, potremmo forse trarne qualche lezione, persino una holocaustica religio in grado di salvarci dal disordine e dall’entropia.