Anna Frank romanista

Sull’affaire “Anna Frank romanista”, la “goliardata” (se così possiamo definirla) dei tifosi della Lazio, che hanno voluto attaccare allo stadio degli adesivi della giovane vittima dell’olocausto con la maglietta della squadra avversaria, francamente ho poco da dire. Del resto, come intimano sempre al fermato i poliziotti americani nei telefilm americani, “qualsiasi cosa dirai potrà essere usata contro di te in tribunale”. Tuttavia, anche se (a scanso di equivoci) la mia condanna per il gesto è categorica, non posso fare a meno di osservare, in primo luogo, che è piuttosto scorretto criminalizzare esclusivamente i tifosi della Lazio, quando lo stesso “Osservatorio Antisemitismo” registra la diffusione del fenomeno in tutte le curve (i romanisti non sono da meno).

Da ciò deriva un’altra considerazione immediata, e cioè che in fin dei conti in questa storia l’antisemitismo c’entra poco, sia perché se tali stereotipi sono diffusi tra le due tifoserie, allora lo sfottò dei laziali rientra nella tradizione dell’ingiuria antifrastica (cosa c’è di più offensivo che definire un antisemita “ebreo”?), sia perché soprattutto una generazione come la mia, cresciuta a pane e Schindler’s List, ha un modo diverso di bestemmiare rispetto alle precedenti. In sostanza, ci troviamo di fronte a una nuova forma di “blasfemia” adeguata ai canoni della sensibilità contemporanea.

Proviamo, per assurdo, a pensare che l’Italia sia ancora un Paese cattolico e che a scuola, invece dei film su Anna Frank, si guardassero quelli su Santa Maria Goretti: è ovvio che gli sberleffi, in tale universo parallelo, avrebbero colpito la giovane martire. Al contrario, se nelle circostanze attuali i laziali avessero messo la maglietta della Roma anche a Cristo in croce (in pratica per veicolare il medesimo messaggio), la vicenda non avrebbe “fatto notizia”, anzi, molto probabilmente gli ultras avrebbero ricevuto un plauso per la loro “arguta provocazione” da parte degli stessi che ora si indignano.

La riprova sta nel fatto che l’oltraggio alla Madonna perpetrato da una pornostar libanese nello stesso giorno delle “figurine antisemite” non abbia appunto registrato alcuna reazione da parte dei quotidiani italiani (del resto è noto che nel nostro Paese insultare la Vergine non è reato, perché «tecnicamente non è una divinità», come ha sancito una recente sentenza). Ciò ovviamente non giustifica nulla, ma sta di fatto che i tifosi non possono épater le bourgeois scegliendo un bersaglio che “non fa notizia”, altrimenti la provocazione non avrebbe alcun senso.

Alla luce di tali riflessioni, purtroppo si è costretti a osservare che il rituale purificatore messo in atto sui campi di calcio (con minuti di silenzio e lettura di stralci dal Diario) non potrà che sortire l’effetto opposto a quello sperato, poiché aumentare la devozione verso le icone non debella in alcun modo l’iconoclastia. L’unico senso che possiamo dare a questa liturgia riparatoria è quella di testimoniare ancora un residua presenza del “sacro” nella nostra società. Se però volessimo essere polemici fino in fondo, dovremmo altresì notare che le comunità ebraiche ormai troppo spesso indirizzano il loro sdegno verso capri espiatori “politicamente corretti”: ecco perché sulla televisione italiana, in un pomeriggio qualsiasi, si possono assistere a oltraggi ben più offensivi verso gli ebrei da parte di certi cartoni americani (si veda questo esempio tratto da “I Griffin”), senza che l’UCEI o altre organizzazioni si permettano di protestare. Lo stesso discorso andrebbe fatto nei confronti del cosiddetto “antisemitismo delle banlieue”; in effetti ciò che mi ha portato a buttar giù queste righe è stata l’intervista di Lilian Thuram al “Corriere” di oggi, nella quale l’ex terzino della Juve (ora idolo della gauche caviar nonostante il suo controverso approccio ai problemi coniugali) è riuscito a dire una cosa del genere:

«[In Francia] nessun gruppo potrebbe dare una dimostrazione così sfacciata davanti a tutti. Non so se sia per maggiori controlli o per altri motivi, non sono in grado di identificare esattamente le cause. Però in Francia una cosa simile negli stadi è impossibile. Perché i politici, i media e la società in generale sarebbero così sconvolti che non potrebbe succedere una seconda volta».

Non scherziamo: il problema francese è proprio che gli arabi francesi odiano gli ebrei “sul serio”, cioè per motivi concreti, siano essi religiosi (giudeofobia islamica) o politici (la questione israeliana), e non per semplice gusto della provocazione. Altro che Italia: i cugini d’oltralpe con gli ultras hanno problemi enormi rispetto ai nostri, se pensiamo solo che da oltre quindici anni è impossibile organizzare un’amichevole (amichevole!) tra Francia e Algeria perché i tifosi si ammazzano tra di loro e Marsiglia finisce a fuoco e fiamme (in realtà accade regolarmente a ogni partita della nazionale nordafricana, vedi qui o qui).

Da questo punto di vista i tifosi italiani non posso accettare lezioni da nessuno, nemmeno da quelli israeliani. Perché, se è vero che Anna Frank non è né romanista né laziale, allora bisogna riconoscere che, se fosse ancora viva, non tiferebbe nemmeno il Beitar Gerusalemme, i cui supporter sono considerati tra i più razzisti al mondo, e addirittura rivendicano con orgoglio il loro razzismo (la galleria degli orrori stilata nell’ottimo articolo linkato dimentica peraltro che pochi anni fa un ragazzo palestinese fu bruciato vivo da alcuni tifosi del club israeliano).

Al di là di tali deprimenti considerazioni, vorrei chiudere con una nota “di colore”, per così dire: in coda allo “scandalo”, il presidente della Lazio Claudio Lotito ha involontariamente gettato benzina sul fuoco confondendo “moschea” e “sinagoga” durante un’intervista televisiva: la gaffe è in effetti una di quelle in grado di far saltare i nervi anche al più pio dei rabbini, ché da tempo l’ebraismo è impegnato in una estenuante contesa mimetica con i fratelli agariti per il titolo di “vittima suprema”.

Non so i motivi per cui provo simpatia nei confronti dei proprietari di squadre di calcio (forse perché ho nostalgia dei bei tempi in cui si giurava fedeltà al signore feudale): ad ogni modo, così come ho difeso Thohir sulla storia dei “tre olandesi”, ora mi sento in dovere di spezzare una lancia anche per Lotito, ricordando semplicemente che per secoli gli italiani hanno considerato le espressioni “moschea” e “sinagoga” come equivalenti. Il lemma che solitamente le teneva assieme era meschita, che il Tommaseo considera valido sia per “moschea” sia per “sinagoga”, in particolare col significato esteso di «adunanza dove regni confusione» o «luogo di confusione e di rumori disordinati». L’Aligheri usa peraltro “meschite” per indicare le torri della città infernale di Dite, intendendole più in generale come costruzioni (pagane) munite di pinnacoli o minareti. Lo stesso cognome ebraico “Muscetta”, molto diffuso nel Meridione, testimonia il riferimento alla sinagoga e le infinite storpiature a cui è stato sottoposto il termine (moschetta, moscheta, musceta…).

Nel Grande dizionario Garzanti della lingua italiana moderna, “meschita” oltre ovviamente che per “moschea” (lo usano d’Annunzio e Gadda), vale anche per «costruzione di aspetto strano ed esotico, con torri e pinnacoli», mentre “sinagoga” per estensione (quando appunto si confonde con “meschita”) giunge a rappresentare una «riunione o adunanza di persone spregevoli, disoneste, corrotte, di scarse capacità intellettuali, o di cospiratori ecc.; gruppo o insieme di tali persone o il luogo in cui avviene una tale riunione» (Foscolo: «La casa di madama Vadori era la Sinagoga in cui gl’Ipocriti, gli Scribi ed i Farisei si congregavano per crocifiggermi»), nonché «confusione rumorosa, baraonda, chiasso, strepito (e il luogo in cui si genera)».

Al di là del caso Lotito (che a quanto pare è stato vittima di un mero lapsus), mi sembra che più in generale tale disorientamento semantico non sia dovuto tanto alla pura e semplice “ignoranza”, quanto alla “mancanza di ignoranza”, cioè l’interiorizzazione involontaria di stilemi e modelli della propria tradizione culturale. Sembra comunque che la confusione regni non solo da queste parti, se il “Times of Israel” ci informa che l’anno scorso dei turisti turchi all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv hanno scambio la sinagoga per una moschea e si sono messi a pregare sugli scialli ebraici (tallitot). Fortunatamente l’incidente internazionale si è chiuso con un nulla di fatto: i turchi si sono scusati ed è finita lì, elhamdülillah.

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