Antonio Fogazzaro Premio Nobel per la Letteratura

Per dieci lunghi anni (dal 1901 al 1911) Antonio Fogazzaro fu più volte tra i candidati al Nobel per la letteratura, ma i giurati lo giudicarono ripetutamente indegno più per motivi politico-religiosi che artistici: come rivelano alcuni documenti inediti analizzati da Enrico Tiozzo nel suo saggio La letteratura italiana e il premio Nobel (Olschki, Firenze, 2009), l’atto di pubblica obbedienza alla Chiesa di Roma dello scrittore vicentino si rivelò una “provocazione” inaccettabile per l’Accademia di Svezia.

Accadde nel 1906, quando Il santo venne messo all’Indice e Fogazzaro si vide costretto a rimediare con una pubblica dichiarazione:

«Ho risoluto fin dal primo momento di prestare al Decreto quella obbedienza che è mio dovere di cattolico, ossia di non discuterlo, di non operare in contraddizione di esso autorizzando altre traduzioni e ristampe».

Come è noto, l’Accademia di Svezia scelse di premiare un altro italiano, Giosuè Carducci, senza considerare che il suo antipapismo era in realtà un anticristianesimo tout court.

Al di là dello sdegno campanilistico per la “congiura svedese”, quello che nessuno ricorda a proposito del Fogazzaro è la sua sottile ritrattazione dell’atto di obbedienza. Avvenne un anno dopo, a Parigi, durante una conferenza intitolata Le idee religiose di Giovanni Selva, tenuta il 18 gennaio 1907.

Lo storico Paolo Mariani ha citato alcuni passaggi di questo intervento nel suo La penna il compasso (Il Cerchio, Rimini, 2005): in quell’occasione Fogazzaro riconobbe il valore «dell’obbedienza alle leggi della Chiesa», ma con la riserva che «per modificare o abrogare le leggi, la prima cosa da fare contro di esse è obbedire loro». Ammise che il suo scopo era di far pressione sull’autorità dall’interno, per propiziare «la preparazione di uno stato di coscienza collettivo, che si esprimerà spontaneamente negli atti dell’autorità» (lo scritto integrale è consultabile nella sezione “Discorsi” del XIV volume delle Opere, Mondadori, Milano, 1942).

La somiglianza con la tattica adottata dai cosiddetti “modernisti” è evidente, specialmente nell’accenno alla “coscienza collettiva” (e al formarsi di una classe di “interpreti” in grado di rappresentarla). Il santo è del resto un romanzo cattolico di ispirazione apertamente modernista; lo stesso Fogazzaro, per voce del protagonista, palesa più volte i suoi intenti:

«Siamo parecchi cattolici, in Italia e fuori d’Italia, ecclesiastici e laici, che desideriamo una riforma della Chiesa. La desideriamo senza ribellioni, operata dall’autorità legittima. Per questo abbiamo bisogno di creare un’opinione che induca l’autorità legittima ad agire in conformità, sia pure fra venti, trenta, cinquant’anni».

Nonostante Fogazzaro avesse espresso le sue idee nel modo più chiaro possibile, l’Accademia di Svezia accolse in maniera assolutamente negativa la “abiura”, dimostrando col senno di poi una certa miopia anche dal punto di vista politico, oltre che letterario. La proposta di Fogazzaro era infatti limpida e non lasciava spazio a  equivoci: per dirla con una formula divenuta celebre decenni dopo, egli proponeva una “lenta marcia nelle istituzioni”, l’unica condotta concepibile per ridurre il potere ecclesiastico in un Paese come l’Italia, la cui popolazione non aveva mai conosciuto una opposizione “religiosa” di massa al cattolicesimo.

È vero che la storia non si fa con i “se”, ma è così assurdo credere che il Concilio Vaticano II si sarebbe fatto cinquant’anni prima qualora uno come Fogazzaro avesse vinto il Nobel? Invece, come al solito, il risentimento verso tutto ciò che è “romano” impedì ai nemici di trionfare sul cattolicesimo europeo e di realizzare una alternativa cristiana che, nella sua forma italiana, non si schierasse con forze anti-evangeliche (quando non direttamente pagane).

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