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Ariani Iraniani: splendori e miserie del nazismo persiano

La mia raccolta di saggi La storia è in incubo dal quale sto cercando di svegliarmi si chiude con un capitolo dedicato alla questione del nazismo persiano, nel quale si citano fonti e documenti totalmente estranei ai lettori italiani, motivo che mi ha spinto a dare alle mie ricerche una forma “provvisoriamente definitiva”, col proposito di approfondire l’argomento attraverso qualsiasi mezzo disponibile. Ecco perché ho deciso di riportare periodicamente sul blog correzioni e aggiunte a un capitolo di storia che deve essere ancora scritto. Ringrazio i lettori che continuano a contribuire a certe improvvisate imprese intellettuali attraverso l’acquisto dei miei libri o il finanziamento diretto.

Davud Monshizadeh a un convegno del Sumka

Prima di cominciare ad affrontare l’influenza dell’ideologia nazionalista in Iran, voglio ammettere il debito nei confronti dell’analista internazionale Timothy Doner (cfr. The weird world of fascism in 1950s Iran, 18 settembre 2020) e del fondamentale studio del professore Ali Rahnema Behind the 1953 Coup in Iran. Thugs, Turncoats, Soldiers, and Spooks (Cambridge University Press, Cambridge, 2015). Non posso inoltre negarvi che tra le mie fonti annovero anche sogni, suggestioni e ricordi di vite precedenti non vissute.

Le avventure del nazismo persiano

Il primo embrione del nazionalsocialismo persiano fu rappresentato dal Sumka, abbreviazione di “Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Iraniani” (سومکا؛ حزب سوسیالیست ملی کارگران ایران, Ḥezb-e Sosīālīst-e Mellī-e Kārgarān-e Īrān), oscura organizzazione presieduta dal filologo Davud Monshizadeh (1914-1989), che trascorse gli anni della Seconda guerra mondiale in Germania collaborando con il regime nazista, affermando addirittura di essere stato ferito nella battaglia di Berlino.

Davud Monshizadeh con i militanti del Sumka

Alcuni documenti declassificati dalla CIA mostrano come l’intelligence statunitense fosse a conoscenza delle attività di Monshizadeh: in un rapporto del 1946 compare in un elenco di collaborazionisti nazisti assieme a una cinquantina di altri cittadini iraniani.

Il delfino di Monshizadeh, Dariush Homayoun (1928–2011), divenuto in seguito Ministro dell’Informazione dello Scià, afferma nelle sue memorie che Monshizadeh era addetto agli interrogatori dei prigionieri di lingua persiana sul fronte orientale. In effetti nei Freikorps nazisti militarono anche tagiki, probabilmente reclutati proprio nei campi di prigionia. In una lettera del 27 ottobre 1942, Otto Paul (docente dell’Istituto per la ricerca sulla questione ebraica) indica un certo “Davoud Monchi Zadeh (sic), Ministero della Propaganda” come consulente sull’identità razziale degli ebrei persiani.

Dariush Homayoun (al centro)

Gli anni della guerra

Nel 1943 Monshizadeh conseguì a Monaco la laurea in filologia iranica e esordì come studioso con delle monografie sul teatro religioso persiano. Attraverso l’ambiente accademico entrò in contatto con Stig Wikander (1908–1983), celebre iranista svedese, e con l’orientalista tedesco Walther Wüst (1901–1993), membro di spicco della Ahnenerbe.

Monshizadeh si considerava ariano e anche per questo sposò una donna tedesca (dalla quale ebbe quattro figli). Tra i suoi motivi di orgoglio, spiccava quello di essere «l’unico iraniano presente come uno degli ufficiali della guardia d’attacco [afsarān-e gārd-e hamleh] nella capitale del Terzo Reich». In tale veste venne presumibilmente ferito da un colpo di pistola che gli frantumò il bacino, vicenda che in seguito lo studioso mitizzò in un singolare poema a sfondo autobiografico ambientato tra gli sciti, nel quale compare una donna “delle tribù del nord” e un guerriero ariano sconvolto dalla morte del re Dario (chiara metafora del Führer).

Questa storia tuttavia è completamente inventata. Secondo le testimonianze della stessa famiglia di Monshizadeh, costui nel 1945 non si trovava nemmeno a Berlino, ma rifugiato in una città vicino a Potsdam. Come ha riferito la moglie a Timothy Doner nel 2018:

«L’esplosione è durata solo venti minuti, ma la casa ha continuato a tremare, le finestre, il tetto e le porte sono volate via. Poi abbiamo sentito giungere i carri armati russi. Uno di esso è sceso lungo il sentiero della nostra proprietà e ha colpito la nostra abitazione. Erano quasi le dieci di sera quando Davud, sentendo parlare russo, ha aperto immediatamente la porta della cantina. Dall’esterno è giunta una truppa di soldati alti, dall’aspetto selvaggio e con le barbe ispide: abbiamo scoperto subito che erano musulmani, e hanno abbracciato Davud e baciato i bambini.
Quando però tutta la famiglia è uscita a prendere aria, improvvisamente c’è stato un botto da far fischiare le orecchie. Davud è rimasto accanto a me per un momento, ma poi ha esclamato “La mia gamba è spezzata!” ed è svenuto. Non sono riuscita a tenerlo in piedi perché era pesante. Era pienamente cosciente, gemeva e non sono stata in grado di trovare subito la ferita. Inoltre sanguinava abbondantemente, quindi non riuscivo a distinguere nulla. Solo allora l’ho visto: il foro di proiettile nella sua coscia aveva le dimensioni del pugno di un bambino ed era uscito dalla parte che di solito si usa per sedersi…».

Davud Monshizadeh con la moglie

Tra aprile e novembre, durante la convalescenza, Monshizadeh, stordito dalla morfina, iniziò a soffrire di febbre e allucinazioni. Dopo aver subito una decina di interventi chirurgici, riuscì misteriosamente a sgattaiolare nella zona occidentale, abbandonando la sua famiglia e ponendo fine alla prima fase della sua carriera di nazista.

Ricomparve nel 1947 come Lektor di persiano a Monaco di Baviera, dove assunse come assistente Gertraud “Traudl” Junge (1920–2002), l’ultima segretaria privata di Hitler che rimase nel Führerbunker fino all’ultimo.

Traudl Junge

Nel 1950, dopo un periodo ad Alessandria d’Egitto (dove pare che tra i suoi “allievi” ci sia stato anche un giovane Sadat), è tornato in Iran per unirsi a un movimento fondato da altri ex nazisti il Sumka, che con Monshizadeh al timone e il sostegno della CIA, avrebbe svolto un ruolo significativo nel colpo di stato del 1953.

Militanti del Sumka

I primi passi dell’ideologo del nazismo persiano

Davud Monshizadeh si fece le ossa nella redazione di “Iran-e Bastan” (1933-35), rivista patrocinata dagli irani dell’India, interessati a promuovere studi sulla Persia preislamica per trarre vantaggio dalle politiche paniraniste dello Scià e rafforzare i legami con le comunità zoroastriane del subcontinente indiano. Sotto la guida dell’intellettuale Saif Azad, di stanza a Berlino, il foglio divenne tuttavia un megafono del regime nazista e iniziò a pubblicare, per esempio, foto di Hitler da bambino,

appelli al popolo iraniano ad adottare “sport civili” come tennis, hockey sul ghiaccio o sci,

e trionfalistici resoconti delle spedizioni dell’Ahnenerbe in Tibet.

Nel secondo anno di pubblicazione, la tiratura salì a 8000 copie per ogni uscita quindicinale. Il giornale cominciò a condannare puntualmente la “propaganda ebraica” e a dare più spazio ad approfondimento sulla scienza razziale del Reich (anche Alfred Rosenberg scrisse un articolo). In un pezzo del marzo 1933 Monshizadeh imbastì un manifesto di stampo romantico-nazionalista, elogiando la santità delle stelle e del cielo dell’Iran e affermando tutto il proprio amore per i compatrioti.

La famiglia Monshizadeh

La famiglia Monshizadeh faceva parte dell’aristocrazia di Erevan. Un lontano antenato, Mohammed Reza Beg, fu sindaco (kalāntar) della città nel XVIII secolo e nel 1715 capitanò un’ambasciata safavide alla corte di Luigi XIV. Le sue scappatelle parigine divennero motivo di pettegolezzo per l’alta società dell’epoca.

Verso il 1880 il patriarca Karim Monshiov, ricevuto il permesso dallo scià Nasser al-Din di trasferirsi a Teheran, condusse con sé il figlio undicenne Ebrahim. Come molti immigrati caucasici nell’Iran di Qajar, Karim si trovò presto incorporato nella Brigata cosacca persiana, l’unità di cavalleria d’élite addestrata dalla Russia che avrebbe svolto un ruolo decisivo nella creazione dell’Iran moderno.

Nel luglio del 1895 il comandante della brigata Kossogovskij avvelenò il patriarca, e da quell’istante il figlio Ebrahim iniziò a nutrire sentimenti di rivalsa contro i cosacchi. Quando costoro intervennero contro il Movimento Costituzionale Iraniano (1907), Ebrahim divenne un radicale e organizzò una società clandestina, Komiteh-ye Mojāzāt (“Comitato per la punizione”), volta all’assassinio di «anglofili e traditori della patria», che tra il 1917 al 1918 fu coinvolta in almeno una una decina di omicidi di funzionari di alto rango e giornalisti (nonché del Ministro delle Finanze dell’epoca).

Nel settembre 1918 Ebrahim Monshizadeh venne arrestato e fucilato. La morte del padre (quando aveva solo quattro anni) fece sorgere anche nel giovane Davud il risentimento contro la Brigata Cosacca, lo stesso gruppo il cui capo, Reza Khan, avrebbe successivamente preso il potere e stabilito la dinastia Pahlavi nel 1921. Come giurò Monshizadeh una volta divenuto adulto,

«ogni traccia di mio padre che avessi mai raccolto in vita mia, la porto ora in me: è una battaglia senza tregua per questo sangue e questa terra. Credo al destino dei miei antenati e alla mia missione razziale».

L’Iran negli anni ’20 e ’30 rappresentava l’humus elettivo per la “radicalizzazione” di Davud, poiché il confronto del Paese con la modernità portò a un crescente interesse per ideologie come comunismo, nazionalismo, sindacalismo, liberalismo, monarchismo e, ovviamente, nazismo e fascismo. Ispirato da Atatürk, lo Scià decise infatti di “occidentalizzare” la Persia, vietando il velo in pubblico, imponendo stili di abbigliamento più “europei”, favorendo la scolarizzazione e patrocinando le opere pubbliche. Trovò anche modo di forgiare una nuova ideologia nazionale, che glorificava la Persia preislamica e la sua identità “ariana”.

Atatürk incontra lo Scià (1934)

L’espressione “ariano” filtrò dai circoli accademici europei all’Iran attraverso lo scrittore Mirza Aqa Khan Kermani (1854-97) che lo traslitterò come “ariyan” e sintetizzò la sua dottrina in tal modo:

«Se si paragonano un iraniano, un greco e un inglese a un negro sudanese o un arabo, si è chiaramente in grado di giudicare quale sia il civilizzato e quale il selvaggio».

Mirza Aqa Khan Kermani

Sotto Reza Scià, l’arianesimo e la fede nella mitica Persia preislamica passò da dottrina settaria a ideologia di stato: nel 1935 egli chiese alle ambasciate straniere di riferirsi alla Persia col suo nome originario, Iran (letteralmente “Terra degli Ariani”).

Biglietto di auguri indirizzato allo Scià da Adolf Hitler (1936)

Sumka

I fondatori del Sumka erano una accozzaglia di funzionari governativi e uomini d’affari, molti dei quali di fede zoroastriana, guidati inizialmente da un certo Manuchehr Amir-Mokri. Mentre nel Paese l’influenza comunista avanzava e l’Ḥezb-e Tūdeh-ye Īrān (“Partito delle Masse dell’Iran”) ordiva complotti contro lo Scià, il Sumka guadagnava simpatie alla corte Pahlavi. All’epoca esistevano già diversi gruppi ultranazionalisti (come i pan-iranisti) e il Sumka appariva come il veicolo adatto per far confluire tutte queste tendenze sotto un unico emblema.

Convegno dei pan-iranisti

Monshizadeh considerava l’occupazione alleata un’umiliazione per il Paese e credeva che l’ultima possibilità di un Iran libero fosse rappresentata dal nazismo: non aveva cambiato idea su Hitler (che non hai mai considerato un dittatore), né sul regime nazista («Cento volte meglio dei suoi oppositori bugiardi e truffatori»). Così, mentre la Germania intraprendeva un faticoso processo di de-nazificazione, in Iran la rinascita nazista veniva alimentata da un misto di opportunismo, ambizioni personali e anticomunismo.

Nel 1951 Mossadeq divenne Primo Ministro e i fondatori del Partito si convinsero di poter manovrare Davud Monshizadeh come un burattino: costui aveva tuttavia già iniziato la sua scalata all’interno dell’organizzazione, che lo avrebbe portato a diventarne l’autorità indiscussa.

Il Sumka nell’Iran degli anni ’50

I militanti del Sumka hanno sempre negato che il proprio simbolo avesse a che fare con la svastica, affermando invece che fosse la stilizzazione di una Fenice (Simurgh). Anche le camicie nere vennero ricondotte a quelle dell’esercito del generale Abū Muslim (VIII secolo), mentre il saluto a braccio teso fu ridotto a gesto tradizionale degli antichi persiani.

Gli obiettivi indicati nel programma del Sumka erano: «distruggere il dominio del denaro e spazzare via tutte le manifestazioni del capitalismo»; sciogliere le associazioni «contrarie all’interesse nazionale»; opporsi ai «meccanismi marci e corrotti del governo parlamentare»; contrastare la «natura velenosa ed effeminata» della letteratura persiana, che Monshizadeh accusava di declino culturale, stigmatizzando gli iraniani che giustificavano il loro lassismo con «una citazione sbagliata di Hafez» e nascondevano la propria ipocrisia «con un verso dal “Roseto” [Golestan] di Saʿdi», riferendosi a due classici della letteratura persiana al posto dei quali raccomandava invece le imprese degli “eroi ariani” dello Shāh-Nāmeh, “Il Libro dei Re” di Firdusi.

L’ossessione per il cambiamento dei gusti letterari andava di pari passo con la volontà di riformare l’alfabeto persiano, il cui sistema di ortografia accusava di aver creato una società “indisciplinata”. Il Partito era interessato anche all’introduzione di nuove forme di comportamento: il suo Galateo Nazionalsocialista in 25 punti, includeva raccomandazioni come «Non masticare con la bocca piena» e «Non usare un linguaggio volgare». Monshizadeh aveva persino pensato di creare una nuova religione con processioni presso la tomba di Dario («La più grande manifestazione della razza ariana») e pellegrinaggi ai centri “sacri” dell’Iran preislamico, nonché di fondare una organizzazione su stampo della Hitlerjugend, che proibisse droghe e alcol e incoraggiasse lo sport e l’atletica tra i giovani iraniani.

Il Sumka non era naturalmente estraneo all’antisemitismo: «Tutti gli ebrei, anche se vivono in Iran da centinaia di anni, traggono la loro ricchezza dalla rovina dello Stato. Questa nazione ebraica canaglia conosce solo frode e falsità. Gli ebrei non hanno il diritto di essere iraniani e inquinano il nostro sangue».

Haroun Yashayaei, una figura di spicco nella comunità ebraica iraniana, ricorda che, durante il periodo di Mosaddeq, i membri di Sumka si radunavano fuori dalla scuola ebraico-francese Etehad per attaccare gli studenti.

Nel 1952, il Sumka attirò l’attenzione dei diplomatici statunitensi e quando gli agenti della CIA cominciarono a tramare il colpo di stato, decisero che poteva essere utile avere questi fanatici anticomunisti tra i loro ranghi. Il partito, dal suo quartier generale di Teheran (conosciuto come la “Casa Nera”), fornì le truppe d’assalto per le rivolte anti-Mossadeq e nel marzo 1953 attirò l’attenzione delle forze di sicurezza, che arrestarono Monshizadeh. Il leader curiosamente fu scarcercato un giorno prima del colpo di stato del 19 agosto 1953, forse anche grazie ai suoi agganci col generale Hasan Arfa (1895–1983), referente dei servizi britannici, e il colonnello Ahmed Fateh, ufficiale dell’aeronautica in pensione che possedeva una pasticceria a Teheran.

Dopo il colpo di stato del 1953, il Partito ricevette 2500 rial mensili direttamente dal Ministero degli Interni. La polizia segreta (Savak) nel 1958 finanziò anche il viaggio di Monshizadeh negli Stati Uniti con 7000 dollari; secondo lo storico Ali Rahnema questo fu «un generoso compenso per il contributo dato da lui e dal suo partito alla destabilizzazione di Mosaddeq». Il leader del Sumka rimase poi negli Usa fino al 1961, con un impiego presso la Library of Congress.

Nel maggio 1952 Monshizadeh incontrò funzionari dell’ambasciata britannica per assicurarsi un sostegno finanziario e strinse legami con altre organizzazioni fasciste irachene sostenute ugualmente dagli inglesi. Sempre secondo la testimonianza di Daryoush Homayoun, pare che nel giugno dello stesso anno il Sumka sia riuscito a ottenere fondi anche da Washington, attraverso dei giornalisti iraniani (i famigerati Boscoe Brothers) collegati alla CIA sotto l’egida di una sorta di Gladio persiana, la TPBEDAMN (Tudeh Party, be damned: “Che sia dannato il Tudeh”, il partito comunista).

Nel 1963 Monshizadeh lasciò il Paese per emigrare in Svezia su invito del suo vecchio amico il professor Stig Wikander, il quale lo fece assumere come iranologo all’Università di Uppsala, città dove nel 1989 morì (dopo una brevissima parentesi come professore invitato a Marburgo).

Come conclude Rahnema, il Sumka seguì il destino di tante organizzazioni di estrema destra che «una volta raggiunto l’obiettivo di rovesciare Mosaddeq, si estinsero con la stessa rapidità con cui erano sorte». Già nell’era khomeinista dei neonazisti iraniani si erano perse le tracce, e al giorno d’oggi testimonianze sporadiche emergono solo nelle comunità della diaspora, in maniera perlopiù folkloristica e improvvisata.

Il ritorno dei paniranisti?

Per inquadrare queste ricerche in una prospettiva attuale, seppur faziosa, propongo un post del blog “Action internationaliste” (Fascisme iranien : le retour des pan-iranistes ?) risalente al settembre 2014.

Una volta fuoriusciti dal sottobosco politico dell’Iran, quale sarà il ruolo dei pan-iranisti nel sostenere il regime di Teheran? Nel dicembre 2013, durante una manifestazione di ambientalisti nel Khuzestan, militanti fascisti filo-regime e nazionalisti pan-iraniani si sono uniti per attaccare gli attivisti arabi, accusandoli di separatismo.

Come molti movimenti fascisti europei, mediorientali e sudamericani, il movimento pan-iranista è soprattutto l’espressione di una contraddizione socio-politica, un’ideologia di facciata che maschera l’opportunismo e gli interessi della borghesia. Le dinamiche militanti dei pan-iraniani sono ben consolidate: questo movimento neonazista, che mescola arianesimo e antisemitismo, usa i codici del Terzo Reich (bandiera, fasce, uniformi) e adotta una visuale pan-iranista.

Se il marcato antisemitismo pan-iraniano è condiviso in un certo senso da tutte le fazioni che si spartiscono il potere a Teheran, il dissidio essenziale sembra rappresentato da una parte nella considerazione dell’Islam sciita come simbolo dell’identità iraniana, dall’altra dagli interessi di classe divergenti.

La caratteristica fondamentale del pan-iranismo è l’ideologia imperialista che sta alla base del suo nome in riferimento ai popoli iraniani: un super-stato che riunirebbe i popoli oltre i confini della persofonia, una Grande Persia che includerebbe il Kurdistan, l’Afghanistan, il Tagikistan, ma anche altre regioni dell’Asia centrale dove vivono popoli turchi.

Le autorità iraniane potranno in futuro utilizzare questa ideologia per estendere la propria area di influenza oltre le minoranze sciite della penisola arabica. È per questo motivo che il movimento pan-iranista è tollerato dalle autorità: i legami dei pan-iraniani con il vecchio regime, la loro interpretazione fascista della modernità, l’ostilità all’identità religiosa sciita come fondamento culturale dell’Iran li rendono ancora nemici del potere. Tuttavia, i movimenti sociali in ascesa in Iran, scaturisti dalle lotte operaie o dal separatismo, potrebbero spingere le autorità a cercare alleati politici tra l’opposizione storica, come dimostrato dall’incidente in Khuzestan (storicamente questa regione araba è anche una roccaforte pan-iraniana).

Bisogna ammettere che i pan-iranisti non hanno mai brillato per la loro coerenza politica. Invece di allearsi politicamente ai nazionalisti (e Mossadeq) durante la dittatura dello Scià, hanno preferito diventare i burattini del potere, a sua volta gestito da burattini degli interessi angloamericani.

È però questo costante opportunismo la rende un’organizzazione tollerabile, a scopi di strumentalizzazione, dal potere islamico. In generale, i legami che si instaurano tra neonazisti e pan-iraniani (relativamente isolato nella sfera “sovranista” nazionale a causa della loro collaborazione con la dittatura filoamericana dello Scià prima del 1979 e della loro ostilità a Mossadeq) suggeriscono una possibile ricomposizione dell’estrema destra in Iran.

I neonazisti iraniani, tuttavia, rimangono una forza militante irrisoria di poche decine di individui isolati e per il momento non rappresentano un pericolo. Per il movimento sociale iraniano, il nemico resta il potere islamico nel suo insieme (mullah, bazaari, pasdaran) nonostante gli antagonismi socio-politici interni al regime. Il movimento sociale iraniano deve attentamente sorvegliare all’interno (partecipazione di pan-iraniani durante le rivolte anti-governative) e all’esterno (incidente del Khuzestan) qualsiasi deviazione futura in senso paniranista.

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