La prima metà del 2016 è stata caratterizzata da una vera e propria “moria” di artisti. Per menzionare solo quelli che sono stati ricordati dai miei contatti Facebook in questi mesi: David Bowie (10 gennaio), Franco Citti (14 gennaio), Alan Rickman (14 gennaio), Ettore Scola (19 gennaio), Abe Vigoda (il “Tessio” del Padrino, 26 gennaio), Glenn Lewis Frey (chitarrista e tastierista degli Eagles, 18 gennaio), Paul Kantner (cantante dei Jefferson Airplane, 28 gennaio), Black (autore della celebre “Wonderful Life”, 26 gennaio), Frank Finlay (30 gennaio), George Kennedy (attore americano, 28 febbraio), Aldo Ralli (6 marzo), Keith Emerson (10 marzo), Riccardo Garrone (14 marzo), Paolo Poli (25 marzo), Dennis Davis (uno dei batteristi di Bowie, 6 aprile), Tony Conrad (compositore d’avanguardia americano, 9 aprile), Prince (21 aprile), Lino Toffolo (17 maggio), Nick Menza (batterista dei Megadeth, 21 maggio), Giorgio Albertazzi (28 maggio), Bud Spencer (27 giugno), Michael Cimino (2 luglio), Abbas Kiarostami (4 luglio).
Cosa può essere accaduto? L’ipotesi più verosimile è che gli Illuminati in accordo con la Giudeo-massoneria internazionale abbiano deciso che la “festa è finita” e che l’umanità, dopo essersi goduta il baccanale, deve ora prepararsi a un’era di oscurità senza più film né canzoni.
Nessuno tuttavia ha avuto (almeno finora) il coraggio di formulare questa tesi: se fino a pochi mesi fa i “teorici del complotto” riuscivano a tenere il passo (catalogando la morte di qualsiasi celebrità, da Philip Seymour Hoffman a Robin Williams, sotto la voce Illuminati blood sacrifices), oggi anche loro sono stati travolti dagli eventi, tanto è vero che un accenno di dietrologia si è potuto apprezzare solamente al principio della falcidia, con i retroscena sulla morte di Bowie “pianificata” tramite eutanasia come un copione perfetto (del resto persino le leggende metropolitane sui «cantanti morti [che] nun so’ mmorti veramente» non hanno avuto il tempo di attecchire: l’ultimo ad aver goduto di tale “privilegio” pare sia stato Michael Jackson nel lontano 2009).
Un’ipotesi più macabra della precedente è che esista anche per le celebrità un fenomeno simile all’Effetto Werther, il quale è descritto dagli psicologi in questi termini: «Subito dopo un suicidio da prima pagina, aumenta vertiginosamente la frequenza di suicidi nelle zone dove il fatto ha avuto grande risonanza. […] Dai dati anagrafici e anamnestici, appare un’impressionante similarità tra la condizione del primo, “famoso” suicida, e quella di coloro che si erano successivamente suicidati, ossia se il suicida famoso era anziano, aumentavano i suicidi di anziani, se il suicida apparteneva a un certo ceto sociale o professione, aumentavano i suicidi in quei determinati ambienti» (G. Nardone – P. Watzlawick, L’arte del cambiamento, Ponte alle Grazie, Firenze, 1990, p. 68).
Lasciando però da parte le panzane, veniamo a qualcosa di più concreto (e anche cinico, per certi versi): l’impressione di “moria” non potrebbe derivare dal fatto che negli ultimi decenni non sono comparsi talenti in grado di competere con quelli sbocciati approssimativamente dal dopoguerra fino agli anni ’90?
Una sensazione inconscia di tutto ciò mi pare emerga dalle commemorazioni da social network, che nonostante l’inevitabile tendenza al sarcasmo tipica dell’era internettiana, non sembra che questa volta abbiano registrato lo snobismo tipico dello “sfigato medio” che negli anni passati aveva dato invece il meglio di sé, arrivando a esprimere concetti quali «Preferisco ricordare Mario Verdone invece che Michael Jackson» (26 giugno 2009) e «Preferisco ricordare Giorgio De Rienzo che Amy Winehouse» (23 luglio 2011). Non so se poi l’abbinamento critico/celebrità si sia ripetuto negli anni: ripensandoci, è dal 2011 che mi sono imposto di non frequentare più sfigati (nemmeno su Facebook), quindi la mia impressione può esser stata influenzata da tale circostanza (non voglio nemmeno prendere in considerazione l’eventualità di esser diventato lo “sfigato d’osservazione” di qualcuno senza accorgermene).
Provando a confinare il discorso esclusivamente all’ambito musicale, mi domando se queste morti non colpiscano particolarmente per la consapevolezza indistinta che una certa ars non è poi così longa: può sembrare paradossale che il concetto di “musica che muore col suo creatore” si presenti nell’epoca della riproducibilità tecnica (anche se, seguendo la celebre tesi del Benjamin, ciò non dovrebbe rappresentare una contraddittorio), ma proviamo a pensare, per esempio, al contrasto tra il concerto organizzato dai russi a Palmira e quello dei Rolling Stones a l’Havana.
Nessuna persona sana di mente può aver percepito come “sacrilego” il fatto che a interpretare le opere di Prokof’ev fossero altri dal compositore stesso; al contrario, se i cubani avessero voluto sentire a tutti i costi la musica dei Rolling Stones, ma quelli non fossero stati disponibili (magari perché anche loro “vittime” di questo 2016!), non si riesce neppure a immaginare cosa sarebbe successo qualora gli americani avessero mandato a eseguire i pezzi più famosi non dico una cover band, ma anche solo un gruppo allo stesso livello (almeno “storico”) di Jagger e compari: a quel punto, per evitare la guerra, sarebbe stato meglio trasmettere degli ologrammi, come recentemente è stato fatto proprio con Michael Jackson (di questo passo l’esperienza di un concerto assomiglierà sempre più a L’invenzione di Morel).
Tutto ciò accade soprattutto per la distanza incolmabile tra il classico e il moderno (persino quando ridotto a “modernariato”) che esiste ancora a livello di immaginario collettivo (nonostante tutti i tentativi messi in atto per superarla). Si tratta di un contrasto dal carattere quasi mimetico che si produsse quando la musica classica europea decise di “suicidarsi” attraverso la dodecafonia e l’atonalismo, lasciando le sue “armi migliori” (tonalità, ritmo) al rock e al pop, che le sfruttarono fino alle più imbarazzanti semplificazioni.
Ciò è talmente vero che gli unici nei confronti dei quali tale dicotomia sembra perdere un minimo di ascendente sono i Queen, che pur sopravvivendo dal 1991 in una sorta di limbo, si sono concessi il lusso di ingaggiare un cantante poco più che trentenne senza subire processi per “blasfemia”. Che l’abbiano passata liscia proprio perché, agli occhi delle masse, essi partecipano più degli altri all’archetipo di ciò che è considerato classico?
Infine, l’ultima ipotesi, forse la meno convincente, è che il fatto stesso che qualcuno consideri incredibile una moria di individui che, per quanto talentuosi e straordinari, avevano comunque ampiamente superato il mezzo del cammin di nostra vita, è di per sé un sintomo del fatidico spirito dei tempi. Mi sembra che questo stato d’animo abbia qualcosa a che fare col connubio sempre più forte tra arte e morte che il terrorismo nell’ultimo anno è riuscito a imporre, seppur “desublimandolo” (se così si può dire) e per certi versi anche democratizzandolo. Non parlo solo di Charlie Hebdo e del concerto degli Eagles of Death Metal al Bataclan, ma anche di tutto il Jihad Cool ruotante attorno al radicalismo islamico.
Dato che ho dimenticato di farlo quando aveva ancora senso, colgo ora l’occasione per segnalare la dedica dell’adorabile Cecily Strong del Saturday Night Live alle vittime degli attentati parigini (in ogni caso una rappresentazione icastica -e pure gradevole- del genius saeculi):
Mi dispiace che tu l'abbia dovuto scoprire proprio da me (!), ma ricorda che i latini dicevano "Non omnis moriar"…
Poi magari non è nemmeno morto veramente, come dice appunto "Li immortacci" di Elio e le Storie Tese: "Li cantanti mortinun so' mmorti veramente.So' nascosti a Roma a fa' la bella vita.Sono stati presi in blocco da 'na ditape' ffa' vennere più dischie faje un po' pubbliscità"
Scopro ora con il tuo intervento della dipartita di Black, un pilastro della mia prima infanzia. Sono abbastanza scioccata, che possa riposare in pace.Le tue domande sono legittime, me lo sono poste anch'io