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Australia: ragazzo ebreo costretto a baciare i piedi di un musulmano

They don’t want to call it antisemitism
The mother of a 12-year-old Jewish student who was verbally abused, physically assaulted and forced to kiss the feet of a Muslim boy shares their harrowing ordeal with The AJN
(Rebecca Davis, “Australian Jewish News”, 4 ottobre 2019)

“Mi commuovo perché è già passato un anno”. Karen (nome di fantasia) non riesce a trattenere le lacrime: suo padre, un sopravvissuto all’Olocausto, nel 2012 prima di morire registrò un video per testimoniare il bullismo che aveva patito da dodicenne in Polonia e l’antisemitismo della metà degli anni ’30, “che all’epoca lasciava quasi tutti indifferenti”.

Suo figlio, Taylor (altro nome di fantasia), adorava ascoltare le testimonianze del nonno, ma ora l’esperienza del suo zaida (“nonno” in yiddish) sembra molto più vicina alla sua: Taylor sarebbe infatti vittima di presunti episodi di bullismo antisemita.

A dodici anni ha iniziato a frequentare il Cheltenham Secondary College, dove conosceva già qualche nuovo compagno di classe per averci giocato assieme in qualche partita di calcio. “Non appena però hanno scoperto che Taylor giocava per l’Ajax lo hanno subito identificato come ebreo, e da lì è iniziato tutto”, afferma la madre.

Un giorno il “capobranco” lo invita fuori dalla scuola con la scusa di una partita e comincia ad aggredirlo assieme ad altri ragazzi: “Lo hanno messo di fronte all’alternativa di prendere botte da tutti oppure di… baciare i piedi di un musulmano”.

Sapendo di non essere in grado di difendersi, Taylor si inginocchia e bacia i piedi del ragazzo, mentre gli altri lo riprendono e pubblicano il video su Instagram. All’insaputa di Taylor, poche settimane dopo la madre si imbatte nelle immagini e decide quindi di recarsi a scuola per discutere del problema, trovandosi a suo dire davanti a un muro di indifferenza.

“Mi hanno detto che l’episodio non è accaduto nei locali della scuola e che quindi a loro non spetta far nulla al riguardo, consigliandomi invece di andare alla polizia se credevo fosse una cosa così grave”.

Dopodiché sono iniziati gli insulti quotidiani contro suo figlio: “scimmia ebrea”, “negro di un ebreo”, “storpio di un ebreo” eccetera. Taylor non ha potuto far altro che sopportare in silenzio.

La tensione ha continuato a salire, finché un pomeriggio nei corridoi della scuola Taylor è stato aggredito senza alcun motivo dal bullo, che lo ha sbattuto contro gli armadietti e gli ha urlato contro insulti come “troia ebrea” oppure “tornatene a Caulfield” (quartiere ebraico di Melbourne) mentre lo malmenava.

Taylor è riuscito a difendersi finché non è giunto qualche insegnante a separarli. Il bullo, in preda all’ira, è stato trascinato in un’aula mentre lo studente aggredito, accompagnato in infermeria per medicarsi, ha avuto un attacco di amnesia temporanea, sintomo, secondo il medico di famiglia, di una crisi acuta d’ansia.

“Era stato preso a pugni in faccia, la parte sinistra della schiena era piena di lividi, aveva uno sbrego sulla spalla”. In tali condizioni Karen lo ha portato quella sera stessa in ospedale, avvertendo immediatamente il presidente della Anti-Defamation Commission (l’associazione australiana contro l’antisemitismo), Dvir Abramovich.

Il giorno seguente Karen si è recata dalla polizia per denunciare l’accaduto. La reazione della scuola l’ha però lasciata confusa e amareggiata: l’istituto si è rifiutato di riconoscere la matrice antisemita dell’aggressione. Il college ha solo convocato una psicologa del Department of Education and Training (DET) -peraltro ebrea- per discutere con Taylor.

Avvisata qualche ora dopo l’accaduto, Karen si è ritrovata in una stanza con il preside e il vicepreside, la psicologa del Dipartimento e un altro specialista dell’istituto. “C’era qualcosa che non mi quadrava”, ricorda Karen. “La psicologo del DET mi ha fatto capire in maniera piuttosto esplicita che non avrei dovuto coinvolgere nessuna altra istituzione al di fuori della scuola, acconsentendo a che il caso venisse risolto all’interno di essa”.

“Non volevano nemmeno chiamarlo antisemitismo”, afferma Karen esasperata. “E nemmeno volevano definirlo bullismo, perché se gli insulti discriminatori fossero continuati, sarebbero stati obbligati a prendere provvedimenti. Invece, per evitare di fare alcunché, hanno trasformato il tutto in un ‘episodio isolato’ escludendo il bullismo o il razzismo”.

La soluzione proposta dalla scuola è stata una sospensione di cinque giorni per il “capobanda” e una serie di sedute per Taylor allo scopo di fargli apprendere “strategie di accettazione [coping mechanisms] e resilienza”. La psicologa del DET ha persino consigliato a Taylor di insultare i bulli in ebraico, in modo da “evitare punizioni per il linguaggio scurrile e di farsi capire dagli altri compagni”.

Su richiesta della scuola, Karen ha acconsentito che il figlio venisse vistato da alcuni specialisti, le cui conclusioni sono state univoche: Taylor era mentalmente stabile, solo l’ambiente scolastico lo metteva in difficoltà.

È stato possibile verificare subito la validità della “diagnosi” quando il ragazzo, tornato a scuola, è stato minacciato dal fratello maggiore del capo dei bulli. Come ricorda Karen: “Gli ha detto che era nella merda per quello che aveva fatto e che anche se avesse cambiato scuola lui aveva contatti dappertutto”. Quello fu l’ultimo giorno di Taylor al Cheltenham Secondary College.

Secondo Karen, la scuola si è rifiutata di collaborare con la polizia nelle indagini, ponendo paletti persino alla visualizzazione delle riprese delle videocamere interne. Alla fine non c’è stato modo di dimostrare che il bullo avesse usato insulti antisemiti e dunque si fosse reso colpevole di un “crimine d’odio” [hate crime].

Le vicende degli ultimi mesi hanno pesato molto su Taylor e Karen, che è anche una madre single e dopo aver ricevuto minacce anonime ha dovuto prendersi due settimane di pausa dal lavoro per lo stress. L’equilibrio però ora si sta ricostruendo, grazie anche all’aiuto di Abramovich che si è mosso per trovare a Taylor un posto in una scuola ebraica.

E per uno strano caso del destino, Karen ha scoperto che suo figlio era già iscritto a quella scuola: a farlo era stato il nonno prima di morire. “Mio padre desiderava a tutti i costi che il ragazzo frequentasse una scuola ebraica, perché almeno lì sarebbe stato al sicuro assieme ad altri ebrei come lui”.

Questa vicenda pare aver rafforzato il legame di Taylor con la sua identità ebraica, tanto che ora il ragazzo è totalmente coinvolto dal suo Bar Mitzvah. Come ha detto un rabbino a Karen, “non tutto il male viene per nuocere”.

“Taylor avrebbe potuto allontanarsi dall’eredità della nostra famiglia, lasciarsi alle spalle il fatto che suo nonno fosse un sopravvissuto all’Olocausto, ma non l’ha fatto. Anzi, è completamente cambiato e ora vuole abbracciare in pieno la sua Yiddishkeit. Sono stupefatta! Tra l’altro mio padre gli aveva comprato uno scialle da preghiera prima di morire. Credo sia venuto il momento di tirarlo fuori dall’armadio”.

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