Avetrana: la miglior fiction italiana degli ultimi tempi (o dei tempi ultimi)

Sono andato a guardarmi la miniserie Qui non è Hollywood (il Tribunale di Taranto ha vietato di citare il comune di Avetrana nel titolo) e devo ammettere, con amarezza, che si tratta di una delle produzioni televisive migliori a cui abbia mai assistito. Non che, in effetti, guardi la tv molto spesso, ma posso benissimo rendermi conto di come la Rai in materia di fiction non abbia mai nemmeno sfiorato certi livelli, dimostrando semmai un’incapacità congenita a concepire nulla che non sia assolutamente mediocre (e per quanto riguarda Mediaset, meglio non discuterne nemmeno, alla faccia degli elogiatori del “privato” rispetto al “pubblico”).

Partiamo da regia e sceneggiatura: al di là di vari espedienti narrativi ma anche “formali” (le interminabili sequenze fantasmagoriche, che talvolta sfociano nello stucchevole, o perfino nel manierismo horror/thriller), lo sconosciuto -parlo per me- Pippo Mezzapesa è riuscito a gestire un materiale incandescente senza piegarsi alle perversioni e alle ubbie del “grande pubblico”.

In ciò è stato obiettivamente facilitato dalla scelta perfetta degli interpreti, la cui impeccabile immedesimazione è parsa rispecchiare la stupefacente somiglianza con i protagonisti della vicenda (a parte forse “Zio Michele”, per il quale si è preferito affidarsi a un caratteristica dall’esperienza quarantennale quale Paolo De Vita, con la sicurezza che non avrebbe svilito il personaggio a macchietta ad onta di qualche smorfia di troppo).

La trama è basata perlopiù su un saggio, La ragazza di Avetrana di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni, con qualche lieve “licenza” (per dire: la stessa scritta sul muro che dà il titolo alla fiction non è stata incisa per protesta contro l’assalto mediatico, ma minimo un decennio addietro come omaggio a una canzone dei Negrita di fine anni ’90), che però non si spinge eccessivamente nei meandri del drama (questa libertà artistica peraltro ha ispirato la sequenza della consegna della teca delle preghiere alla Madonna del Mare con tanto di riprese subacquee).

Nel trattare l’argomento, inoltre, si è avuta l’arguzia di non sposare in toto la verità giudiziaria per lasciare allo spettatore la possibilità di interrogarsi su chi sia il vero colpevole dell’assassinio di Sarah Scazzi. In taluni frangenti peraltro sembra quasi venga messa sotto accusa un’intera cittadina, dalla prospettiva claustrofobica del Sud più a Sud d’Italia, dove la magnificenza dei paesaggi e gli scorci così “caratteristici” si uniscono indissolubilmente a una grettezza d’animo, a un’arretratezza non solo culturale, nonché a una desolazione invincibile.

Va detto, anche a rischio di offendere qualcuno, che nonostante certe comunità meridionali amino dipingersi come fonti perpetue di allegria e spensieratezza, non esistono sule, mare o ientu in grado di placare i demoni arcaici che esse covano al proprio interno.

Il Sud è uno scrigno oscuro che racchiude leggende inenarrabili fatte di santi impazziti, mafiosi impuniti, patriarchi incestuosi e femmine “tarantolate”, sulle quali neppure la presenza di migliaia di riflettori accesi può far luce. Una “isola di calce” che rasserena solo nel formato di una cartolina o di una breve vacanza, perché per il resto la terra è avara, il mare stanca e l’ambiente è ostile (non è un caso che le uniche immagini in cui i coniugi Misseri appaiono sorridenti sono quelle risalenti alla cattività tedesca, nella fredda e inospitale Amburgo).

Più nessuno mi porterà nel Sud, annunciava Quasimodo. E anche il popolaccio sembra condividere, se si scomoda a visitare Avetrana solo per farsi scarrozzare da qualche osceno “tour dell’orrore” la cui rappresentazione funge da principio ed epilogo di Qui non è Hollywood. Eppure in quelle zone ci sono spiagge dalla bellezza misconosciuta, in grado di competere con qualsiasi “paradiso” tropicale: nemmeno dopo il fatto di sangue qualcuno le ha degnate di una visita, preferendo invece i “luoghi del delitto”, come ricordano anche gli Autori de La ragazza di Avetrana:

«Vengono organizzati pullman dalla Calabria e dalla Puglia, ma anche dal Lazio e dalla Campania. Punti cruciali di questo tour dell’orrore sono la casa di Sarah, quella dei Misseri, il cimitero; alcuni vanno anche a fare “la gita al pozzo”».

Lasciamo però stare la “questione meridionale” e concentriamoci invece sulla vera tragedia rappresentata da opere come questa, da cui a mio parere l’unica morale che si può trarre è la seguente: gli italiani sono ormai completamente fuori dalla Storia e l’unica cosa che hanno da presentare al mondo è l’omicidio di una ragazzina, il quale tutt’al più sarebbe dovuto rimanere confinato al feuilleton (o agli articoli di giornale, sempre detto con  il massimo rispetto).

A pensarci bene, è doloroso ammettere che non ci sia poi chissà che altro da raccontare dell’Italia di quegli anni: chi farebbe binge watching (a parte il sottoscritto, s’intende) per serie dedicate  alla crisi del governo Berlusconi, all’emergenza rifiuti a Napoli, al triplete dell’Inter, ai preparativi per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia o all’ascesa del Movimento 5 Stelle?

Macché, al limite si potrebbe puntare sull’omicidio di Yara Gambirasio o sulle ultime fasi del processo di Erba, giusto per restare in tema. Insomma, non se ne esce! La cultura di massa, i modi di dire, i tormentoni estivi, il ministro tal de’ tali: nulla di ciò vale la pena ricordare senza una cornice che esprima un sentir comune. E alla fine gli italiani pare abbiano trovato un surreale senso di “nazione” nell’ossessione true crime, che si è impossessata del mainstream, producendo allo stato dell’arte approfondimenti infiniti sulla povera Giulia, la povera Pierina, la povera Lilli ecc..

Noto en passant che tale tendenza, più che da oltreoceano, dalle nostre parti sembra riflettere una plebeizzazione dell’interesse semi-colto per l’ambito giudiziario, il quale non a caso è partito da note trasmissioni del terzo canale della Rai come Chi l’ha visto o Un giorno in pretura. Tale origine, del resto, potrebbe celare un’ispirazione pseudo-politica nel momento in cui, con un po’ di azzardo, è possibile identificarne la fonte inquinata nella stagione successiva a Mani Pulite, che da disordinata transizione di potere si è trasformata in una forma di identitarismo civico.

Questa osservazione però allargherebbe il discorso verso una delle poche “storie” che forse varrebbe la pena di raccontare, ovviamente con taglio non apologetico o encomiastico. Tuttavia, nemmeno tale periodo potrebbe ispirare un’epica immune da parodie e sdilinquimenti: sarebbe un altro spreco di talenti ed energie per vellicare la nostra morbosità e lasciarci ancora, kafkianamente, davanti alle porte della Legge.

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4 thoughts on “Avetrana: la miglior fiction italiana degli ultimi tempi (o dei tempi ultimi)

  1. Non voglio farti rivaleggiare col Zinefilo, ma visto che hai toccato l’argomento dell’orrore della profonda provincia italiana conosci “Janara” (2015) e “Pantafa” (2022)? Da non appassionato del genere mi piace leggere più d’un parere.

  2. Confesso il mio guilty pleasure verso l’attrice culona che interpreta la Sabrina, e credo anche verso la Sabrina vera.

  3. Egregio Mister, trovo tenero e commovente questo tuo adombrare un Meridione mitologico-orrorifico, un Sud quasi lovecraftiano. Ahimè anche questo rientra nel bozzettismo oleografico cui ci hanno abituati i vari film e filmetti realizzati col sostegno dell’assessorato al turismo.
    Purtroppo, in fondo al pozzo di zio Michele non si agita Shub-Niggurath. La realtà è prosaica quanto quella del giovane impazzito che sterminò i parenti col tallio, forse superato in termini di banalizzazione dal recente duplice infanticidio.

    La domanda fondamentale è sempre la stessa: di chi è la colpa?
    Il futuro incombe minacciosamente vuoto, all’orizzonte non si scorge neanche il profilo rassicurante del terribile iudex venturus. Perciò i tribunali hanno sostituito le cattedre di teodicea; i tv show based on a story, meglio se a sfondo criminale, sono agiografie dove la nozione di santità rimane sempre rivedibile.
    L’Italia è all’avanguardia rispetto alle culture meno evolute (tutte le altre); non si fa più alcuna illusione, soprattutto politica. Resta solo la teologia popolare di un paese fondamentalmente scettico e superstizioso a un tempo.

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