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Baalenciaga

Non mi pare che l’affaire “Baalenciaga” (le pubblicità a tema pedofilo-sadomaso del noto marchio del lusso) abbia suscitato l’attenzione che meritava nel campo del complottismo internazionale, men che meno in quello italiano.

Eppure si tratta di un episodio gravissimo, la madre di tutte le auto-distruzioni in nome del marketing, in quanto la storica casa di moda fondata da Cristóbal Balenciaga che si è imposta a livello internazionale a partire dagli anni Duemila, quando è stata acquisita (dopo una rifondazione) dalla multinazionale francese Kering, ed è riuscita a crearsi il proprio regno mediatico seguendo rigorosamente i dettami del politicamente corretto (che come ultima iniziativa hanno portato il brand a interrompere ogni rapporto con il rapper Kanye West per le sue dichiarazioni antisemite), a novembre 2022 ha deciso di compiere una sorta di suicidio con una campagna pubblicitaria (Balenciaga Gift Shop), i cui scatti sono peraltro stati realizzati dal fotografo Gabriele Galimberti, che ritraeva bambini agghindati con abbigliamento bondage assorito (vestiti in pelle, collari, catene).

Una scelta elogiata dalla stampa (per esempio anche la nostrana Repubblica parlava di “retrogusto provocatorio, in pieno stile Demna [Gvasalia, stilista georgiano direttore artistico del marchio], ritraendo i bambini con oggetti evocativi del mondo fetish“) che tuttavia ha immediatamente suscitato una generale indignazione e costretto gli stessi mass media a fare un passo indietro per non seguire il percorso autolesionistico della casa di moda.

Il disgustoso exploit del brand, che per l’occasione si era fatto addirittura ribattezzare Baalenciaga (in onore a Baal, il demone dei sacrifici umani) ha spinto molti a scandagliare l’universo “artistico” che lo circonda, giungendo tra le altre cose a scoprire che in contemporanea alla Balenciaga Gift Shop era stata lanciata un’altra campagna in collaborazione con la Adidas (testimonial l’attrice francese dal profilo isideo Isabelle Huppert), nella quale compariva ben nascosta (ma non così tanto da non poter essere addocchiata dagli “iniziati”) la riproduzione di una sentenza della Corte Suprema statunitense (US vs Williams, 2008) con la quale sostanzialmente si afferma che il divieto di possedere materiale pedopornografico non viola il famigerato “Primo Emendamento”, interpretata come una sorta di “dichiarazione di intenti” talmente smaccata da aver costretto Balenciaga a chiedere 25 milioni di dollari di danni alla casa di produzione North Six e al pubblicitario Nicholas Des Jardins.

In un altro scatto della campagna compare alle spalle di un modello di colore il diploma di tale John Phillip Fisher, un ottantenne condannato nel 2018 per aver violentato sua nipote sin dall’età di quattro anni (e noto alle cronache soltanto per questo). Un altro “incidente di percorso” evidentemente cercato e voluto.

Sull’onda dell’indignazione sono poi emersi dettagli sui disdicevoli gusti estetici del magnate François-Henri Pinault, che oltre a Balenciaga possiede anche la più grande casa d’aste al mondo, Christie’s, attraverso la quale ha promosso i lavori dei fratelli Chapman, un duo britannico specializzato nella creazione di manichini a tema sado-pedo-porno-transumano.

Infine è saltato persino fuori che il presidente Volodymyr Zelenskij all’inizio della guerra ha creato la piattaforma (a scopo benefico) United24, il cui ambasciatore (nominato da egli stesso in persona), è nientedimeno che il Demna Gvasalia di cui sopra, che nonostante abbia fatto numerosi mea culpa (“Ho imparato dai miei errori”), per anni ha indugiato su suoi social in ambigue esaltazioni della violenza sui bambini, dei sacrifici umani e del satanismo, in collaborazione con la sua “collega” russa Lotta Volkova (che alcuni credono sia la vera ideatrice della campagna “Baalenciaga”).

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