Borges e i classificatori

«Codeste ambiguità, ridondanze e deficienze ricordano quelle che il dottor Franz Kuhn attribuisce a un’enciclopedia cinese che s’intitola Emporio celeste di conoscimenti benevoli. Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche»

La stravagante classificazione dell’Emporio celeste di conoscimenti benevoli proposta da Jorge Luis Borges nel racconto “L’idioma analitico di John Wilkins” colpì particolarmente Michel Foucault, che la indicò come ispirazione primaria del suo saggio Le parole e le cose (1966). Non è ancora chiaro se il filosofo francese considerasse l’enciclopedia cinese come una invenzione letteraria o come qualcosa di reale (l’equivoco, in parte dovuto all’indistinguibilità tra fact e fiction predicata dal postmodernismo, ha generato anche una certa confusione tra i suoi epigoni), tuttavia alcune considerazioni contenute nella “Prefazione” al volume potrebbero trovare risposta in una eventualità poco considerata dai biografi di Borges, ovvero un approccio (mancato) alle lingue orientali da parte dello scrittore argentino. Scrive infatti Foucault: «Gli animali “(i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello” dove potrebbero incontrarsi, se non nella voce immateriale che ne pronuncia l’enumerazione, se non sulla pagina che la trascrive? Dove possono giustapporsi se non nel non-luogo del linguaggio?».
In verità tale giustapposizione potrebbe avere luogo anche nei classificatori del cinese e del giapponese, cioè in quei sostantivi monosillabici (conosciuti anche come “unità di conteggio”) che accompagnano il sostantivo principale (o il verbo a cui si riferisce) per quantificarli.

Dalle biografie di Borges, come è stato osservato, non affiora alcun tentativo di studio sistematico del cinese (nemmeno ora che l’opera dello scrittore è stata tradotta in mandarino), mentre si ricorda en passant un interesse del giapponese tanto tardivo quanto ininfluente, ispirato da María Kodama, la donna che lo scrittore sposò due mesi prima di morire. Sarebbe in ogni caso assurdo credere che Borges da giovane non abbia mai nemmeno sfogliato una grammatica orientale: al contrario, è quasi naturale considerare l’Emporio come una parodia delle unità con cui i sudditi del Regno di Mezzo e dell’Impero del Sol Levante da secoli raggruppano nella stessa categoria una macchina da cucire e un ombrello incontrati casualmente su un tavolo operatorio. No, in realtà le cose sono ovviamente più complesse, ma la tentazione di oltraggiare una vecchia fantasia del surrealismo europeo era troppo forte; tuttavia, per scrupolo ricordiamo che in giapponese l’ombrello viene a volte classificato sotto la categoria “cose lunghe e cilindriche”, a volte assieme ai parasole e alle tende, mentre in cinese se la macchina da cucire va tra un piano e un aeroplano sotto l’unità 架 [jià], l’ombrello è raggruppato negli “oggetti impugnabili”, 把 [bǎ], in compagnia di spade, chiavi e pistole. Da questo punto di vista, l’enciclopedia cinese di Borges avrebbe potuto includere tranquillamente anche la voce “(o)”, «che presentano un’apertura piuttosto grande» (così la Grammatica essenziale della Vallardi), con riferimento all’unità 口 [kǒu] (“bocca”) usata per i maiali, i pozzi, le campane, le boccate di fumo e, nei dati anagrafici, per conteggiare i componenti di una famiglia.

Il fatto che alcuni cattedratici abbiano ritenuto l’Emporio un’opera autentica (secondo lo storico australiano Keith Windschuttle, la svista sarebbe «un segno della generazione della cultura accademica occidentale») e che, in particolare, nel “notable debate” Sahlins-Obeyesekere, l’antropologo Marshall Sahlins abbia portato l’enciclopedia cinese come prova che «ogni cultura assume diversi tipi di razionalità» e «culture diverse ordinano le proprie percezioni in modo radicalmente diverso», potrebbe essere il segnale di un significato meno esplicito del divertissement borgesiano, riguardante l’approccio dell’intellettuale a una lingua e a una cultura “altra” nella reductio ad absurdum di una categorizzazione che è sempre una contraffazione (come qualsiasi come “idioma analitico”), e che spesso si nutre di cliché quali i 50 nomi con cui gli eschimesi chiamano la neve oppure, per restare in tema di cineserie, l’equivalenza di “crisi” e “opportunità” nell’espressione 危机 [wēijī].

One thought on “Borges e i classificatori

  1. Ma i sostantivi monosillabici non sono, appunto, linguaggio? Perché scrivi: “tale giustapposizione potrebbe avere luogo” lì?

    La questione non è proprio la relatività di ogni classificazione, e che culture diverse classificano diversamente la realtà? Senza con questo assumere che non ci sia una stessa realtà da conoscere, al di là dei limiti del linguaggio.
    Cosa conterrebbe di errato questo approccio “nutrito di cliché”? Trovo questo ultimo paragrafo molto interessante.

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