The Walter Benjamin Brigade
(Walter Laqueur, “Mosaic Magazine”, 3 aprile 2014)
L’intellettuale ebreo tedesco Walter Benjamin, nato a Berlino nel 1892, morto suicida sul confine franco-spagnolo nel 1940, resta ancora un uomo misterioso. Tutt’altro che celebre durante la sua vita, è stato consacrato negli ultimi decenni come il più grande pensatore del XX secolo in tutti i campi, dalla filosofia alla sociologia, dall’estetica alla critica. Persino tale evenienza è di per sé misteriosa: tra gli intellettuali mitteleuropei del secolo scorso, la fama dei contemporanei e dei colleghi di Benjamin (ad eccezione del filosofo della Scuola di Francoforte Theodor Adorno) continua a scemare, mentre la sua non accenna a diminuire.
Il numero di articoli e libri dedicati a questo pensatore è sconcertante; una nuova imponente biografia, Walter Benjamin: A Critical Life, scritta da Howard Eiland e Michael W. Jennings (Harvard), è solo l’ultimo titolo di un elenco all’apparenza sterminato.
Come spiegare la moda benjaminiana? Eiland e Jennings chiamano in causa il movimento studentesco degli anni ’60 e il revival del pensiero marxista. Ma i rivoluzionari degli anni ’60 non erano propriamente grandi lettori, e gli scritti di Benjamin sono come minimo un po’ criptici, se non totalmente inaccessibili. Quanto al marxismo, se esso fosse stato così preponderante, allora il vero eroe culturale oggi dovrebbe essere Herbert Marcuse, un tempo riconosciuto padre della nuova sinistra e oggi completamente dimenticato.
Molto probabilmente, Benjamin deve la sua fama all’ascesa dei cultural studies e a tutte le sotto-discipline accademiche a essi collegate: post-modernismo, post-strutturalismo, teoria femminista, gender studies ecc… In tali ambiti lo stile gnomico di Benjamin può rappresentare un valore aggiunto, il segno esteriore di una profondità interiore che suscita al contempo i voli pindarici dell’ingenuità interpretativa.
A contribuire al fascino di Benjamin concorre anche la sua triste biografia. A prescindere dalla tragica fine (si è avvelenato mentre fuggiva dalla Francia occupata dai nazisti), egli ha sempre rappresentato l’escluso per eccellenza, il tipo ideale dell’emarginato. Infatti, se fosse sopravvissuto, difficilmente avremmo potuto immaginarlo allegramente arruolato tra i giannizzeri accademici dei cultural studies contemporanei.
Il mio interesse per Benjamin nasce dallo studio dei movimenti giovanili tedeschi nati a ridosso della Prima guerra mondiale, dei quali è stato un figura di spicco, seppur non uno dei leader. In relazione a questo progetto ho conosciuto alcuni suoi amici di gioventù, tra i quali, in Germania, il pioniere della pedagogia Gustav Wyneken, che fu uno dei suoi primi maestri. In Italia, ho incontrato alcuni suoi ex accoliti della redazione del giornale rivoluzionario Der Anfang. A Gerusalemme, il poeta e bibliotecario Werner Kraft, uno degli amici della prima ora (ma in seguito critico nei suoi confronti) e, soprattutto, Gershom Scholem, che fu il migliore amico di Benjamin e che, con Adorno, è stato il fautore della fortuna postuma di Benjamin.
Il salotto di Scholem a Gerusalemme era dominato dall’Angelus Novus di Paul Klee, un quadro che ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo del pensiero di Benjamin e che Scholem ha ereditato proprio da lui, dopo la guerra (ora è nella collezione dell’Israel Museum). All’ora del tè in casa Scholem, prima o poi la conversazione cadeva su Benjamin: sì, era molto colto, molto letto, impegnato in diverse aree di indagini; sì, le sue idee (a partire il suo saggio più noto, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), erano originalissime, dei veri lampi di genio.
Ma, precisamente, in cosa consisteva questo genio? Benjamin ha creato una nuova filosofia della storia, ha proposto un approccio radicalmente innovativo alla nostra comprensione della cultura europea dell’Ottocento (la sua principale area di interesse), oppure ha rivoluzionato il nostro modo di pensare la modernità? Le risposte di allora, come quelle della letteratura secondaria degli decenni successivi, non mi mai hanno convinto.
Per alcuni il problema è che i più importanti lavori di Benjamin siano rimasti incompiuti. Mi riferisco soprattutto al monumentale Passagenwerk, ispirato in parte all’incrollabile ossessione per la poesia urbana di Baudelaire. Il titolo si riferisce ai celebri passages del centro di Parigi, la cui massima diffusione risale, secondo Benjamin, al momento in cui la città diventa la capitale del XIX secolo. Una figura emblematica per Benjamin è quella del flâneur, l’esploratore urbano assuefatto a questi luoghi. Egli voleva mostrare l’influenza rivoluzionaria dell’urbanizzazione non solo sulla cultura (come si evidenzia nell’arte, nell’architettura e nelle nuove idee estetiche), ma sulla vita in generale. Gli approcci critici tradizionali, sia storiografici che filosofici, secondo il filosofo erano inadeguati a comprendere la nuova epoca del capitalismo e ciò che aveva generato. Benjamin avrebbe voluto elaborare una nuova teoria materialista dalle tinte marxiste per penetrare la realtà moderna.
È riuscito nel suo intento? Gli apologeti si limitano a segnalare le difficoltà che hanno tormentato la sua carriera: la sua abilitazione universitaria venne respinta; il suo progetto di creare una rivista con Brecht naufragò prima di nascere; non riuscì mai ad avere un impiego fisso e dovette ricorrere agli aiuti della sua famiglia e della ex moglie. Dopo il 1933 godette di un minimo sostegno da parte della Scuola di Francoforte, che aveva saggiamente trasferito i fondi prima in Svizzera e poi in America, ma questi aiuti economici non divennero mai una stabile fonte di reddito.
Supponiamo che fosse riuscito a terminare il suo grande progetto. Sarebbe stato davvero così originale? La figura del flâneur era stata già “scoperta” dai romanzi di Honoré de Balzac e di altri, mentre le tematiche principali della poesia di Baudelaire erano state analizzate da diversi studiosi tedeschi, alcuni dei quali erano giunti a conclusioni non troppo diverse da quelle di Benjamin. Erano i passages di Parigi, con o senza Benjamin, il punto di partenza ideale per una nuova concezione della modernità? Anche la più dettagliata biografia Benjamin, di Jean Michel Palmier, non giunge a una conclusione esauriente su questo punto (il lavoro mastodontico di Palmier, 1400 pagine, resta, come le opere di Benjamin, incompleto – il dettaglio si commenta da sé).
È molto più semplice scrivere la biografia di un uomo d’azione che quella di un pensatore, e Benjamin non era altro che un uomo di “inazione”; considerando le difficoltà che questo comporta per un biografo, Eiland e Jennings meritano più di una lode. Necessariamente il loro libro si basa sugli scritti e gli epistolari di Benjamin. Tuttavia, nonostante la volontà di completezza, nel testo compaiono alcune singolare omissioni. In particolare è ignorata la figura di Asja Lācis, il grande amore di Benjamin, colei che, oltre ad essere stata la causa della fine del suo matrimonio, lo convertì a una branca particolare del marxismo e organizzò il suo incontro con Brecht.
Nata in Lettonia, comunista militante, la Lācis visse a Mosca finché non scomparve improvvisamente nel 1938. Nonostante Benjamin sapesse che la sua amata era stata mandata in un gulag (dove rimase per dieci anni), e anche se tale perdita ebbe sicuramente un impatto sulla sua vita e il suo lavoro, nel testo di Eiland e Jennings non compare che un riferimento sfuggevole a questo evento (forse perché non contemplato nella corrispondenza del filosofo).
Dalla morte di Benjamin nel 1940, due temi in particolare sono stati discussi all’infinito: la natura del suo marxismo e il suo atteggiamento nei confronti dell’ebraismo. Dagli anni ’30 in poi Benjamin ha pensato se stesso come marxista e così è stato considerato dai suoi numerosi ammiratori. Tuttavia Scholem sin dall’inizio ha ritenuto l’orientamento “materialista” dell’amico non solo erroneo, ma anche ingannevole: nonostante i suoi tentativi, Benjamin non riuscì mai a far di se stesso un materialista, e chi lo descrive come tale non fa che fraintenderlo. Anche Max Horkheimer era scettico sul Benjamin “materialista”, infatti preferì considerarlo un mistico. Invece Brecht fu molto più duro sulle “aberrazioni mistiche” del filosofo. Recentemente il critico Terry Eagleton lo ha definito “un rabbino”.
La controversia sulle idee politiche di Benjamin è semplice da risolvere. Di tutti gli intellettuali (ed emigrati) di Weimar, era forse il meno politicizzato. Leggendo i suoi saggi e la corrispondenza degli anni ’30, non si può che restare ammirati dalla vastità dei suoi interessi e dalla profondità della sua erudizione – di contro ad un completo disinteresse per la politica. Mentre il mondo andava in fiamme, Benjamin approfondiva gli stilemi della poesia di Baudelaire. Certamente odiava i nazisti e tutto quello che rappresentavano, ma dubito avesse letto molto Marx, a parte gli articoli raccolti ne Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (e soltanto per la luce che gettano sulla Parigi del XIX secolo).
Per quel che riguarda la sua devozione a Baudelaire (un arci-reazionario il cui ispiratore era Joseph De Maistre, nemico giurato della rivoluzione francese), i motivi vanno cercati dappertutto tranne che nella politica. Lo stesso vale per la sua ammirazione per Proust, decisamente non una icona della sinistra, e il suo interesse per Kafka.
Incongruenze simili frustrano ogni tentativo di comprendere il rapporto tra Benjamin e l’ebraismo; anche se il tema in se stesso ha dato vita a una piccola industria culturale, raramente è stato scritto così tanto su un tema così esiguo. Il suo retroterra familiare affonda le radici nell’alta borghesia ebraica berlinese, quasi interamente assimilata. La sua profonda amicizia con il giovane Scholem ha sicuramente stimolato un interesse per l’ebraismo, ma quanto è durato, e quanto fu profondo? La lettura de La stella della redenzione di Rosenzweig (interpretato come testo filosofico e non teologico) non ha avuto alcuna influenza sul suo pensiero e sicuramente non lo ha avvicinato a Dio o alla sinagoga.
Scholem, trasferitosi a Gerusalemme nel 1923, tentò per anni di convincere Benjamin a raggiungerlo presso l’Università Ebraica. Egli si trastullò per un po’ con l’idea di una visita o addirittura di una emigrazione definitiva, ma alla fine rinunciò, nonostante la prospettiva di una carriera accademica, la possibilità di coltivare amicizie importanti – e uno stipendio.
Esther Leslie, docente di political aesthetics che ammira Benjamin e storce il naso per i tentativi di Scholem di trascinarlo via da Parigi, afferma che il filosofo non aveva alcun motivo per trovare accattivante il sionismo – o il deserto. La cultura europea era infinitamente più interessante; inoltre, non c’erano passages a Gerusalemme, e nessuna chiave interpretativa per la modernità nel quartiere di Mea She’arim.
Il posto ideale per Benjamin era l’Europa; purtroppo, l’Europa non aveva posto per lui. Al di là delle opinioni della Leslie, se egli avesse seguito Scholem nel “deserto”, cioè nel lussureggiante e ospitale quartiere di Rehavia, avrebbe vissuto almeno un altro decennio, o forse anche due o tre. Invece di una fine miserabile sul confine franco-spagnolo, avrebbe potuto far ritorno alla sua amata Parigi dopo la guerra. Riesco persino a immaginarlo nel 1944, seduto in un caffè di Rehavia, a parlare di filosofia con Natan Rotenstreich, di fotografia con Tim Gidal, di fisica con Shmuel Sambursky, a giocare a scacchi con lo studioso di folklore Emanuel Olsvanger, e a discutere con i tre Hans (Jonas sullo gnosticismo; Polotsky sulla linguistica; Lewy sulla filosofia greca). La maggior parte di questi studiosi appartenevano al Pilegesh (“Concubina”), una cerchia di intellettuali ebrei tedeschi presieduta da Scholem.
In un modo o nell’altro, Rehavia si sarebbe presa cura di Benjamin: probabilmente il posto sarebbe stato più noioso rispetto a Parigi, ma nulla a confronto di un suicidio in preda al panico in un hotel squallido. E l’mponente opera dello scultore Dani Karavan nella città di frontiera spagnola di Port Bou non può valere come compensazione.