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Buchenwald: un modello di integrazione?

Ha suscitato un prevedibile scalpore la notizia che la Germania starebbe ospitando una ventina di immigrati nientedimeno che a… Buchenwald. È una situazione che si protrae da più di sei mesi e che sarebbe passata inosservata se le testate inglesi non l’avessero proposta ripetutamente ai propri lettori (un probabile moto d’insofferenza per le continue lezioncine merkeliane sull’accoglienza).

Anche la stampa tedesca del resto aveva già sollevato qualche dubbio sulla location: perché è vero che i ventuno ospiti in attesa di esser riconosciuti come “rifugiati” risiedono a chilometri di distanza dall’ex campo di concentramento, alloggiati in comode casette costruite sulle macerie delle baracche di smistamento (che già nel dopoguerra avevano accolto invalidi e sfollati), ed è anche vero che ognuno di loro riceve 135 euro al mese per le proprie necessità; però non si può negare che l’accostamento sia come minimo infelice.

Da un lato infatti incombe l’holocaustica religio che, temendo la secolarizzazione, non può che moltiplicare le accuse di blasfemia e di “lesa Shoah”: gli esempi più recenti (lasciando da parte la martellante reductio ad Hitlerum del Presidente ungherese) sono gli anatemi contro i nebulizzatori anti-afa installati ad Auschwitz, che alcuni turisti israeliani hanno interpretato come vilipendio (e dei quali la presidentessa della comunità ebraica di Roma ha persino contestato il fine pratico, in quanto «il campo sia d’estate che d’inverno va vissuto con le sue temperature bollenti e glaciali perché non può essere una passeggiata in un semplice museo») e la scomunica mediatica della polizia della Repubblica Ceca, che trovandosi alle prese con centinaia di stranieri sprovvisti di documenti e poco propensi a lasciarsi identificare, ha dovuto “marchiare” (con un pennarello!) le braccia di alcune decine di migranti (in tal caso il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane ha dichiarato: «Quello che è accaduto è gravissimo. Decine di profughi sono stati letteralmente marchiati come fossero bestiame destinato al macello, richiamando inevitabilmente il periodo più oscuro della storia contemporanea»).

Dall’altro c’è il rischio che l’Europa sul tema dell’immigrazione possa “perdere la faccia”, come ha affermato l’attuale premier italiano, rivelando implicitamente la principale dimensione del problema, che è mediatica. Se la marea di uomini che preme alle porte non può essere fermata (per mancanza di volontà o di forza), bisogna fare in modo che essa serva almeno a giustificare un sistema politico, sociale ed economico che fino a un attimo fa era considerato iniquo e contraddittorio, se non addirittura criminale.

In una Unione dove chi comanda si sente in diritto di trattare i Paesi in difficoltà come bambini indisciplinati, non può che prevalere la logica paternalistica del “c’è chi sta peggio di te” (ricordate, che ve lo ripetevano sempre?), per altro già adottata da Christine Lagarde nei confronti della Grecia, quando dichiarò al “Guardian” la sua preferenza indiscussa per le sofferenze dei pargoli africani rispetto a quelli greci, che scontavano il peccato di avere come genitori degli evasori fiscali.

Sembra che l’investimento in immagine sia molto sentito dagli eurocrati, se il presidente di turno dell’Ecofin Pierre Gramegna (per giunta lussemburghese) è arrivato a proporre quello che mai si sarebbe sognato di fare per aiutare i cittadini europei: una deroga al patto di stabilità dovuta a una “situazione eccezionale” (una crisi economica in effetti non può esserlo, perché è attraverso di esse che l’Unione governa).

La mossa della Germania è stata quindi particolarmente ingenua, perché ha rischiato per un istante di far inceppare la macchina propagandistica con cui l’Europa della austerità, della recessione e dei diktat si è trasformata in un paradiso di pace, uguaglianza e libertà. Se i tedeschi non riescono a liberarsi della nostalgia per il passato, la prossima volta scelgano almeno un luogo che non urti la suscettibilità di nessuno, come gli Schweigelager (“campi di silenzio”) istituiti dall’NKVD nella Germania Est o i Rheinwiesenlager nei quali gli alleati fecero morire di fame decine di migliaia di prigioneri di guerra.

Una nota (dolente) conclusiva: decine di siti anti-immigrazione stanno diffondendo questo video in cui un ragazzino, proveniente da chissà quali profondità asiatiche o mediorientali, saluta il popolo tedesco passandosi un dito sotto la gola in favore di telecamera.

La scena è stata trasmetta da una televisione slovacca nel corso di un servizio dedicato alla crisi dei rifugiati. Chi ha pubblicato il video su YouTube non ha dubbi che si tratti di una minaccia da parte di un futuro terrorista, e lo propone come pendant negativo della foto del bimbo siriano morto; personalmente andrei più cauto con certi paragoni, tuttavia non posso nascondere di aver trovato la scena piuttosto disturbante. Non tanto per l’atto in sé, che può anche non avere alcun significato, quanto per una bizzarra analogia che mi è balzata subito alla mente con la famosa scena di Schindler’s List (un film col quale sono cresciuto, grazie soprattutto all’indefesso sforzo di divulgazione messo in atto dalla scuola pubblica italiana) in cui un ragazzino si passa il dito sotto la gola in direzione del convoglio di ebrei che va verso Auschwitz.

Essendo refrattario a qualsiasi sfruttamento del vittimismo per fini politici, non credo che gli immigrati diretti in Europa stiano subendo un genocidio né che gli europei (o la razza bianca, o i cristiano-borghesi) faranno la fine degli indiani d’America. Tuttavia il milieu olocaustico in cui i media inquadrano il fenomeno migratorio, avanzando paragoni talmente surreali da esser presi per buoni, deve avermi condizionato: la “Memoria” (anche quella con la maiuscola) può fare brutti scherzi.

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