In uno dei suoi ultimi interventi su Cozy.Tv, il polemista cattolico E. Michael Jones ha commentato la coronazione di Carlo III con il giornalista Theo Howard: una discussione tutto sommato interessante, soprattutto per il fatto che Howard, da buon Englishman, ha cercato di trovare qualcosa di decente da dire, tipo “è stata l’ultima incoronazione cristiana dell’Occidente”, oppure soffermandosi sul “tradizionalismo” del nuovo sovrano, che a quanto pare sarebbe dichiaratamente (li dettaglio è inquietante) lettore di Guénon, Schuon e Coomaraswamy. Di fronte a cotanta “tradizione”, il dottor Jones non ha potuto fare a meno di commentare: “Sì, è un tradizionalista burkeano”.
La polemica con i burkeans è uno dei pilastri del conservatorismo cattolico americano. Per fare l’esempio più recente, nel suo volume Le radici dell’anticattolicesimo negli Stati Uniti, Charlton Parker-Thompson (che da “papista” statunitense vanta un antichissimo retaggio britannico) ne accenna in modo deciso:
«La fine di Carlo I Stuart […] rappresent[a] la dissacrazione completa della Englishness e la sua “possessione” da parte di uno spirito rivoluzionario al cui cospetto impallidiscono tutte le rivoluzioni successive (nonostante il classico schema dei Burkeans imponga una lettura opposta degli eventi, che vede i “cromwelliani” d’oltreoceano come dei riformisti conservatori e i giacobini del Vecchio Continente come precursori dei bolscevichi). Penso che gli storici che “parlano inglese” non abbiano ancora avuto il coraggio di maturare un’opinione onesta sugli eventi che caratterizzarono quel periodo, a partire dalla dittatura militare calvinista dei Cromwell (definita a seconda dei casi come Interregnum, Protettorato, Commonwealth, “Periodo Repubblicano” ecc…) fino alla manifesta violazione delle regole tradizionali della successione ereditaria (una “piccola e temporanea deviazione”, sempre per i Burkeans nonché per il loro “padrino” in persona), ispirato esclusivamente dall’odio -tutto ideologico e per nulla “teologico”- per il cattolicesimo».
Giusto per precisare, Edmund Burke è appunto il “padrino” di quel conservatorismo che, in estrema sintesi, considera la rivoluzione inglese come buona e quella francese come cattiva, e che rappresenta un pezzo enorme della filosofia politica americana. In Italia l’eco di tale polemica, per numerosi motivi, è giunto solo negli ultimi anni: in particolare, un gruppo di dissidenti verso la “rivoluzione” (è il caso di dirlo) neocon intervenuta all’interno di Comunione e Liberazione al volgere del nuovo millennio, ha importato tale dicotomia rendendola per qualche tempo tema di discussione anche a un livello meno specialistico.
Più di recente, mi piace segnalare le pagine che Roberto Marchesini ha dedicato all’argomento nel suo ottimo Liberalismo e cattolicesimo (Sugarco, 2021), dove egli giunge alla conclusione che Burke sia stato un “estremista rivoluzionario” sostenitore di un impresentabile distinguo tra rivoluzione “buona” e “cattiva” ad uso e consumo delle necessità ideologiche degli pseudo-conservatori d’oltreoceano. Ed ora anche dei nuovi bisogni della corona inglese di mantenere una parvenza di “tradizione”.