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Calibanovitch (La versione di Barney)

Non ho ancora trovato il coraggio di guardare fino in fondo la trasposizione cinematografica de La versione di Barney di Mordecai Richler. La prima metà l’ho trovata tremenda: con gli adattamenti la delusione è inevitabile, ma la scusa di “ricostruire la trama” in questo caso è servita a stravolgere completamente i personaggi del romanzo. È una manipolazione deplorevole, poiché nel guazzabuglio della Versione, sono proprio i caratteri a imporsi sul caos delle vicende. Invece nel film le battute di uno vengono fatte dire da un altro, lo sceneggiatore inventa di sana pianta alcuni episodi e inspiegabilmente cambia date, nomi, luoghi.

C’è da disperare sulle capacità del cinema di confrontarsi con la letteratura. A meno che, ovviamente, non si parli di libracci che già assomigliano a sceneggiature, oppure di fumetti, videogiochi, racconti per bambini. Con quelli i registi vanno tranquilli: il tizio che l’ha girato si è dichiarato orgoglioso di aver trasformato Barney Panofsky nel protagonista di una commedia romantica (una versione delicata dei fratelli Coen?).

L’accanimento del regista contro il personaggio principale è impressionante: prima di tutto fa sparire l’antagonista Terry McIver (che nel romanzo compare sin dalla prima pagina) ammorbidendo così gli sfoghi di Barney; poi si inventa la scena del pugno in faccia a Cedric Richardson, il sodale nero del periodo parigino che ha messo incinta la prima moglie di Barney, quando invece i due dovrebbero brindare assieme (questo è il bello di Barney, la sua generosità ingenua, quasi da rintronato); infine (e qui mi sono fermato), nella scena-chiave dell’assassinio di Boogie, oltre a infilare un paio di battute che appesantiscono il dialogo (l’originale di per sé era perfetto), fa inciampare Barney sul molo con la pistola in mano, dando così l’idea che Boogie sia stato ucciso da un colpo partito accidentalmente. Una “trovata” senza senso, che dimostra come il regista e lo sceneggiatore non abbiano capito nulla. A meno che anche loro non abbiano voluto dare l’idea di essere affetti da Alzeheimer, e quindi di aver fatto confusione con le battute e le scene. Purtroppo non è così: i tempi della commedia ingabbiano totalmente la trama, da quella forma non ne esce. L’immensa e variegata collezione di rancori che Barney ha impiegato una vita a raccogliere si spegne sul volto dello shabbes goy Paul Giamatti (tanto valeva cambiare il titolo in Giubba Rossa Panofsky: presente…)

È ammissibile che le battute dell’avvocato di Barney vengano fatte dire da suo padre Izzy; oppure che non compaia neppure di sfuggita la figura di Duddy Kravitz (anche se un regista con il culto di Richler avrebbe dovuto inserirlo), perché le semplificazioni sono inevitabili. Non è tollerabile, invece, il tradimento sistematico dei personaggi e del protagonista stesso.

Prendiamo, per esempio, un argomento politicamente scorretto come l’omofobia: non solo non ve n’è traccia, ma addirittura Barney in una scena viene fatto passare quasi per “omofilo”, precisamente mentre egli sta discutendo con la Seconda Signora Panofsky degli invitati al matrimonio, e il discorso cade (ovviamente) su Miriam: quando la moglie rivela che l’accompagnatore dell’amica era suo cugino gay che fingeva di non esserlo per non mettere in imbarazzo la famiglia, Barney si mostra sollevato e, per non far capire che è felice che Miriam non fosse fidanzata col cugino, dice che è una bella cosa che uno nasconda di essere gay. La Seconda Moglie, soddisfatta della risposta, si volta per continuare a truccarsi; Barney allora sbuffa e la guarda con un’espressione come a dire: «Ho sposato una bigotta!».

È in quell’istante che ho abbandonato ogni proposito di “carità interpretativa”, per poi smettere di guardarlo definitivamente… Certo, è difficile criticare un film senza averlo visto fino alla fine, ma non credo di potergli dare una seconda possibilità. Anzi, per certi versi mi spiace pure che sia stato realizzato un progetto del genere, poiché chiaramente dissuaderà altri registi da ogni tentativo di girarne un’altra versione.

Anche per questo continuo a diffidare degli intrecci tra cinema e letteratura: mi sembra sempre che voglia “fagocitare” ogni cosa, al solo scopo di superare il complesso di inferiorità da ultima arte. O forse è solo il problema di alcuni registi, che non riescono a concepire un mondo in cui le due arti possano convivere. Sarà un caso se finora nessuno ha mai voluto confrontarsi con i romanzi di Chesterton (a parte Padre Brown) o di Elias Canetti, per fare i primi nomi di una lista infinita?

A proposito del romanzo, una nota conclusiva: in Italia è stato accolto con l’entusiasmo e l’ingenuità di chi pensava di aver finalmente trovato un Woody Allen di destra. Tuttavia la Versione contiene un messaggio più profondo, impossibile da ridurre alla polemica tra liberal e conservatori. Questo è infatti il primo libro di Richler che Adelphi ha pubblicato (dopo sono arrivati tutti gli altri). Il motivo per cui è stato deciso di portarlo in Italia non riguarda semplicemente l’ambientazione ebraica eterodossa (una passione di Calasso). Al principio c’è l’interpretazione della Barney’s Version come racconto di un sacrificio umano, che non è il semplice assassinio di Boogie, ma un crimine compiuto nell’incoscienza, quindi “innocente”. Il cuore del romanzo non sono le battute (seppur leggendarie) di Panofsky, ma proprio l’atto dell’uccidere, del sacrificare, senza esserne completamente consapevoli. Mi sembra che nel film questa inquietudine non emerga mai.

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