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I greci hanno dato alla civiltà qualcosa che essa non aveva

«Une Europe sans la Grèce aurait été
comme un enfant sans certificat de naissance»
(V. Giscard d’Estaing, 1981)

Dietro ogni scelta economica si cela sempre una volontà politica, e dietro ogni volontà politica c’è sempre una “cultura” o una visione-del-mondo a cui coloro i quali mettono in atto tali scelte, anche indirettamente si rifanno. È con un certo imbarazzo che si assiste quindi ai tentativi di considerare l’economia come una scienza pura (seppur ugualmente triste) che abbia quale unico scopo quella della “gestione dei beni”: lo stesso discorso è valido per qualsiasi forma di tecnocrazia, che raramente è neutrale o apolitica, ma governa sempre seguendo una propria Weltanschauung.

Da tale breve premessa vorrei far partire una lettura alternativa del disastro nel quale è stata trascinata la nazione ellenica, lasciando da parte qualsiasi considerazione economica: del resto è opinione anche della stampa mainstream che “la Grecia poteva essere salvata” (cit.), ma che nulla è stato fatto, per motivi che evidentemente i comuni mortali non possono capire. Viene il sospetto che, nell’ottica di chi ha pensato questa Europa, la nostra idea di “Grecia” dovesse essere cancellata per sempre. Proverò a dare un po’ di sostanza a questa congettura, per non apparire il solito complottista.

Partiamo da una considerazione brutale: la mia generazione non è quasi più in grado di comprendere cosa rappresenti realmente la Grecia. Ignora perlopiù i motivi per cui Atene è considerata la culla della civiltà e perché Platone e Aristotele sono venerati come “santi laici” dell’Occidente. In compenso migliaia di miei coetanei hanno visitato più volte l’Ellade, non per combattere qualche guerra d’indipendenza contro l’Impero Ottomano o riverire adeguatamente gli antichi dèi; più che altro, negli ultimi decenni mandrie di occidentali hanno imparato a considerare la Grecia una località come un’altra per scopare e divertirsi.

Chi non è stato adolescente negli anni ’00 del XXI secolo penserà che stia enfatizzando un fenomeno estemporaneo, in alcun modo considerabile “epocale”. Sono convinto però che molti miei coscritti potranno confermare quanto sto dicendo, ovvero che da quando la Grecia è diventata “Europa”, essa ha visto ridurre la sua immagine a quella di Mykonos, la leggendaria “isola della perdizione” (le brochure confermano), una Thailandia in area Schengen o una Ibiza più a buon mercato:. Chiaramente in qualche anima il mito antico prevale ancora sull’odierno, come in qualche studentello che con un enorme sforzo di volontà ha preferito andare a Delfi invece di approfittare delle offerte supereconomiche per le Cicladi (una scelta che appunto gli economisti non riuscirebbero a spiegarsi, a meno di non ridurre il nostro patrimonio spirituale a “industria culturale”).

La catastrofe, dunque, è tutto fuorché “finanziaria”: del resto dalla Costituzione Europea vennero estirpate non solo le famigerate “radici giudaico-cristiane”, ma anche quelle greco-latine. La saggezza latina (anzi erasmiana, per restare in tema) ci ricorda che piscis primum a capite foetet, cioè che l’inafferrabile Kulturkampf contro la grecità non può non intrattenere qualche rapporto con l’imposizione della tecnocrazia come unico modello politico per l’Unione Europea. Volendo, si potrebbe risalire a una testa di pesce ancor più maleodorante, quella del mondo accademico, dal quale negli ultimi decenni è emersa la tendenza a sminuire l’apporto ellenico alla cultura occidentale e a scioglierlo nell’ambito del mito, della pre-razionalità.

È una sensazione vaga, non del tutto definibile, ma che trapela da diverse fonti. Ad esempio, nell’incipit della Storia della Filosofia di Reale e Antiseri (Bompiani, 2008), i due storici denunciano, parlando del passato, un atteggiamento assolutamente attuale:

«I Neoplatonici dell’ultima fase [sostennero] che le dottrine dei filosofi greci non sarebbero che elaborazioni di concezioni nate nell’Oriente e ricevute originariamente da sacerdoti orientali per divina ispirazione degli Dei. […] La tesi dell’origine orientale della filosofia trovò credito in Grecia solo quando la filosofia aveva ormai perduto il suo vigore speculativo e la fiducia in se stessa, e cercava la propria fondazione e giustificazione non più nella ragione, ma in una rivelazione superiore».

È una tesi che, come accennavamo, risulta più attuale che mai e riscuote successo anche a livello “divulgativo”: pensiamo, in Italia, all’operato della casa editrice Adelphi, che ha impiegato tutte le sue energie per trasformare la filosofia platonica in una propaggine del misticismo asiatico.

Da tale prospettiva Giorgio Colli resta un “caposcuola”, colui che ha portato alle estreme conseguenze il dualismo nietzschiano di dionisiaco/apollineo e a dissolvere la grecità nella mistica spuria, nell’estasi e nello “sciamanesimo”. Scriveva infatti nella sua opera La nascita della filosofia (1975): «Apollo non è il dio della misura, dell’armonia, ma dell’invasamento, della follia». Anche il Dio del Sole diviene avatar di qualche divinità asiatica: dove neppure Nietzsche aveva osato spingersi (forse per un residuo pudore da filologo), troviamo una schiera di interpreti della grecità come immoralismo e irrazionalismo: Simone Weil, che opponeva graecitas a romanitas in nome di uno gnosticismo improvvisato; Karl Löwith che, scrivendo a Leo Strauss nel 1946 (Dialogo sulla modernità, Donzelli, 1994), si inebriava come un’educanda nel mito del libertinismo ellenico: «Per i greci era del tutto naturale –e di questo io li lodo– avere rapporti con donne, fanciulli e animali», suscitando la risposta seccata del suo interlocutore («Vada a leggersi per favore le Leggi di Platone su questo argomento»). Dallo stesso milieu muoveranno quegli ideologi che in nome della propaganda omosessuale creeranno la nefasta equazione “filosofia greca” = “pederastia pratica e teorica”, trasformando gli studi platonici in una branca dei gender studies.

Impostando una mappa del “martirio ellenico” in ambito culturale potremmo scoprire come le interpretazioni del neoplatonismo antico in chiave anticristiana siano poi riaffiorate nel romanticismo tedesco e nelle congreghe ariosofiche della Germania paleonazista, quasi che la metamorfosi della contraffazione estetizzante della Romantik nella comunanza ariana di tedeschi e greci antichi dovesse essere un passaggio obbligato.

Sfortunatamente lo spazio a disposizione ci consente di affrontare la questione solo a un livello superficiale: possiamo limitarci ad osservare come la guerra alla grecità abbia seguito fondamentalmente le stesse tappe della guerra alla latinità. La più grande conquista dell’intelligenza anticristiana è stata proprio quella di separare la filosofia antica dalla fede in Cristo, dopo che l’Occidente aveva impiegato secoli a farne un’unica tradizione.

Eric Voegelin in diverse sue opere non teme di ricostruire le modalità con cui il cristianesimo salvò Platone e Aristotele dal tramonto della polis, dando alla verità antropologica dello Stagirita un fondamento soteriologico, che poi produsse la splendida architettura del tomismo. Le nostre radici cristiane, per questo, sono anche greco-latine: San Giustino fu il primo a stabilire una comparazione tra Socrate e Cristo (e tra la morte di Socrate per mano degli idolatri e il supplizio dei cristiani): secondo il Martire, anche il maestro greco conobbe il Redentore, nella forma del Logos. Questo solo per accennare alla simpatia quasi immediata che sorse tra cultura greca e cristianesimo nascente: una stessa simpatia che, tra l’altro, provocò la reazione dei Neoplatonici (i quali, non riuscendo a spiegare quel miracolo di inculturazione, preferirono contraffare gli insegnamenti del loro capostipite).

Queste osservazioni riportano all’ipotesi iniziale: tutto ciò che è greco, nel senso positivo del termine, va estirpato. Non basta semplicemente alterare e deformare gli insegnamenti dei filosofi, poiché anche questo potrebbe portare, attraverso una lettura senza pregiudizi, alla riscoperta della verace tradizione europea: bisogna semplicemente farli fuori, ovvero confinare il “miracolo greco” nelle lande arcaiche di un’Asia immaginaria, fare della metafisica il precipitato di un delirio estatico e, dulcis in fundo, attribuire alla civiltà assiro-babilonese tutte le scoperte di Archimede ed Euclide.

Tornando ancora a Reale e Antiseri, le loro annotazioni, per quanto didascaliche, ci aiutano a capire il motivo per cui la Grecia, nella nuova concezione tecnocratica e mondialista, deve sparire per sempre:

«I Greci diedero alla civiltà qualcosa che essa non aveva […]. Senza tener ben presente tale concetto, è impossibile comprendere perché la civiltà dell’intero Occidente abbia preso, sotto la spinta dei Greci, una direzione completamente diversa da quella dell’Oriente».

Questo il cuore del problema: non c’è più bisogno della “diversità” greca, ora il mondo va unificato attraverso l’economia e la tecnica. L’impero romano, per quanto abominevole, corrotto e totalitario (così lo concepiva la Weil) si appropriò della cultura greca fino a farne un’ideologia di Stato. In questa Europa così tollerante e democratica invece non c’è nemmeno un Orazio pronto a riconoscere che Graecia capta ferum victorem cepit. Al di là di tante parole, questo è lo sradicamento letale per la nostra civiltà.

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