Capire Putin: l’analisi del diplomatico Usa che lo conobbe già negli anni ’90

The Key to Understanding Vladimir Putin
(John Evans, “National Interest”, 21 settembre 2019; tr. it. Gog&Magog)

È comune attribuire personalmente a Putin le crescenti difficoltà dell’America con la Russia, ma le fonti di malcontento russo sono precedenti alla presidenza di Putin.

Lasciatemi dirlo subito: credo che noi americani abbiamo frainteso -o, come direbbe George Bush, “sottostimato”- Vladimir Putin dal momento in cui è entrato nei nostri radar all’inizio di questo millennio. Ecco come lo ricordo e cosa penso della situazione cui siamo arrivati.

Putin è stato mio ospite ad un ricevimento del 4 luglio a San Pietroburgo nel 1995, quando prestavo servizio come Console Generale degli Stati Uniti. Ricordo di averlo portato nella mia biblioteca. In quei giorni, prima che cominciasse ad imparare l’inglese, parlavamo in russo. Sua moglie, ancora convalescente da un brutto incidente automobilistico, non lo accompagnò. In quell’occasione, rappresentava il suo capo, il sindaco Anatolij Sobčak, che era fuori per un viaggio. Naturalmente, io non avevo la più pallida idea che quest’uomo fosse destinato a diventare il Presidente della Federazione Russa — e nemmeno lui.

Sembra che siano stati scritti centinaia di libri su Putin e migliaia di articoli. Altri ne stanno arrivando, e ognuno di loro cercherà di gettare ulteriore luce su quest’uomo straordinario, che partendo da umili origini è arrivato a guidare una delle grandi nazioni del mondo, e che ora, all’età relativamente giovane di 66 anni, ha battuto il record (post-Stalin) di longevità al governo, stabilito da Brežnev. Se a metà degli anni Novanta avessi saputo che il mio ospite sarebbe diventato un giorno il leader della Russia, l’avrei invitato a pranzo, a dir poco. Ma non l’ho fatto, e ne sono altrettanto contento, perché avrebbe alterato i nostri rapporti. Allora eravamo infatti semplicemente colleghi.

Una volta ho chiamato Putin per chiedere aiuto, quando alcuni giovani investitori americani californiani, che avevano aperto un fast-food Subway al 50–50 con soci russi, sono arrivati al Consolato Generale inseguiti da una folla. La parte russa dell’impresa aveva imparato a fare i sandwich e aveva chiamato “braccia” dal mondo criminale per sfrattare gli americani e rilevare l’azienda. Ho quindi chiamato Putin per assistenza. La sua prima reazione fu quella di dire che aveva bisogno di una copia del contratto. Mi assicurò anche che avrebbe ordinato alla mafia di ritirarsi, in modo che i nostri cittadini potessero arrivare a Helsinki in tutta sicurezza, in quanto temevano per la loro incolumità fisica. La questione avrebbe poi dovuto andare in tribunale (cosa che alla fine avvenne). Questo era San Pietroburgo negli anni Novanta. Alcuni la chiamavano Far East. All’epoca mi colpì la reazione immediata di Putin nel voler vedere il contratto. Fu la reazione di una persona con formazione giuridica, come era Putin, e con l’intento di vedere che la questione fosse risolta in conformità alla legge.

Putin è quello che i russi chiamano Gosudarstvennik, un uomo di Stato. Non è motivato principalmente dal denaro, anche se i nostri amici di San Pietroburgo riconoscono che non ha mancato di approfittare delle opportunità che gli sono venute incontro. Quando io e altri americani a San Pietroburgo conoscemmo Putin, aveva la reputazione di unico burocrate della città a non prendere tangenti (questa è un’esagerazione; ce n’erano altri). Era ben considerato nel complesso, e fedele al suo mentore e allora capo, Sobčak, uno dei grandi esponenti democratici della nuova Russia. Ex professore di diritto, Sobčak era un bravo scrittore e oratore, ma non era un amministratore provetto. Putin gestiva buona parte delle operazioni quotidiane della città, e gli è stato riconosciuto il merito di aver portato un minimo di ordine nel caotico mondo degli affari, allora gestito dal crimine. Come dicevano i russi in quei giorni, “se devi avere il crimine, non è meglio che sia organizzato?”. Non ricordo se sia una frase pronunciata da Putin, ma potrebbe benissimo averlo detto.

A differenza di Eltsin, Putin non è mai stato un grande bevitore. Ma non era nemmeno astemio. Faceva un brindisi quando richiesto, cioè spesso, e lo sapeva fare bene. I brindisi in Russia sono un modo di comunicare, di mostrare rispetto e di onorare le persone, specialmente nei compleanni e negli anniversari di carriera o altre pietre miliari. I brindisi vengono offerti anche ai morti (senza fare tintinnare i bicchieri), e purtroppo ci sono state molte occasioni di questo tipo a San Pietroburgo negli anni ’90, per non parlare dei tragici ricordi della Seconda guerra mondiale, in cui la città è stata assediata per 900 giorni, con molte vittime nella famiglia di Putin. L’intera città e il corpo consolare si presentavano senza esitazioni al memoriale dei caduti nell’assedio di Leningrado, sepolti nelle fosse comuni del cimitero di Piskarjovskoje.

Quelli di noi che hanno conosciuto Putin negli anni ’90 ricordano che la sua formula per la ripresa della Russia consisteva in tre elementi: ricostruzione dell’economia, gestione del problema della criminalità e riforma dei tribunali. Si trattava di una ricetta piuttosto buona per ciò che all’epoca affliggeva la Russia ed è ancora una buona ricetta di base. Si noti che si occupava esclusivamente di problemi interni: niente geopolitica in questo caso.

Non tenterò di provarlo qui, ma vi assicuro che Putin 1) non era anti-americano (anche se si sentiva più a suo agio con i tedeschi); 2) non era comunista (almeno a quel tempo) o ostile all’impresa privata; 3) non era antisemita; 4) e non era intollerante nei confronti dei gay. Ho già notato che aveva una tendenza alla legalità. Potete fidarvi o no della mia parola per queste affermazioni. Ho esempi concreti a sostegno di ciascuna di esse.

Dovrei menzionare lo sport preferito di Putin, il judo. Le foto di Putin impegnato in questa forma di arti marziali abbondano, così come le teorie che pretendono di spiegare il Presidente con riferimento a questo sport, che in Russia è chiamato anche Sambo. Mi è stato detto che questo è un acronimo di SAMo-oborona Bez Oružija (“autodifesa senza armi”), ma non ho conferme su questo. La maggior parte degli analisti occidentali si sono concentrati sul fatto che lo sport richiede al giocatore di utilizzare la forza e il peso del suo avversario a proprio vantaggio. Questa teoria sostiene convenientemente l’affermazione che Putin ha giocato bene la forza relativamente debole della Russia nel trattare con avversari più forti, ma c’è un altro aspetto che di solito viene trascurato: lo sport viene dall’Est. Il Giappone, credo. I concorrenti si preparano al combattimento in modo amichevole e collegiale. Si inchinano l’un l’altro in segno di rispetto prima di impegnarsi, e di nuovo dopo. È un affare incruento, quasi cortese, con regole e formalità rigide, anche se richiede vera forza, agilità e abilità. Putin ha vinto numerose cinture nere. Ma ha spirito sportivot: in modo memorabile, si è lasciato sconfiggere da un avversario molto più giovane durante una visita in Giappone. Si tratta di una disciplina che richiede anche sobrietà, flessibilità e autocontrollo, qualità che Putin esibisce in abbondanza.

Molto è stato detto sul fatto che Putin ha iniziato la sua vita professionale nel KGB, il temuto servizio segreto dell’Unione Sovietica. Il senatore McCain una volta disse che quando guardò negli occhi di Putin “vide il KGB”. Beh, forse è successo a McCain, anche se George Bush ha avuto una reazione diversa al suo primo incontro con Putin a Lubiana nel 2001. Prima di quell’incontro, mentre venivano preparati dei memorandum informativi per il Presidente su cosa aspettarsi, approfittai della mia posizione all’epoca come direttore della sezione dell’Ufficio di intelligence e ricerca del Dipartimento di Stato per l’ex Unione Sovietica e scrissi un memorandum di due pagine intitolato Vladimir Putin: Una visione eterodossa. In esso ho cercato di trasmettere qualcosa di quello che sapevo di Putin, come contrappeso agli altri appunti che lo deridevano come “politico di provincia” e “di poco peso”, che “non sarebbe durato a lungo”. Ho inviato il memorandum alla Casa Bianca, all’ufficio del Segretario Powell e alla CIA, ma è stato accolto da un silenzio assordante. Poi un analista mi ha chiamato dal profondo delle viscere della CIA a Langley e mi ha detto: “John, grazie per averlo scritto; non saremmo mai riusciti a farlo uscire da qui”. La mia ipotesi è che il mio promemoria sia finito in diversi cassetti. Sicuramente non è mai giunto al Presidente. Eppure, dopo quel primo incontro a Lubiana, c’erano almeno due persone nel governo degli Stati Uniti che sembravano prendere sul serio Putin: il presidente Bush ed io.

All’inizio degli anni ’90, il Center for Strategic and International Studies di Washington si rivolse al sindaco Sobčak e istituì quella che divenne nota come la Commissione Kissinger-Sobčak, destinata ad aiutare la Russia nordoccidentale ad adeguarsi alla nuova situazione. Durante una visita,. Kissinger fu presentato a Putin. Gli chiese dove avesse iniziato la sua carriera. Putin rispose: “nell’intelligence straniera”. Kissinger gli rispose che “tutte le persone migliori partono dall’intelligence straniera”. Naturalmente, Kissinger aveva fatto esattamente questo rispetto all’esercito americano nella Germania del dopoguerra. Nel corso degli anni, Putin e Kissinger si sono mantenuti in contatto, incontrandosi una ventina di volte.

Il KGB, per tutta la sua temibile reputazione di repressore della libertà di parola e di carceriere dei dissidenti, era visto dalla maggior parte dei cittadini sovietici come un servizio d’élite, soprattutto dopo che Andropov salì al potere negli anni ’80 e cominciò a reclutare fra i best and brightest. Era una delle poche strade disponibili a giovani ambiziosi per vedere il mondo e avere una carriera stimolante. Ho sentito persone a San Pietroburgo dire: “il KGB è stato la nostra Harvard”. Putin ha visto tale servizio sia come patriottico che vantaggioso dal punto di vista personale, e ha lavorato sodo per averne le qualifiche.

Alla fine degli anni ’80, quando l’Unione Sovietica cominciava a sfaldarsi, Putin deve essere rimasto sconcertato prima, al suo incarico a Dresda, ma è tornato a San Pietroburgo, allora ancora Leningrado, e ha iniziato a lavorare all’Università. Assunto nell’amministrazione della città dal professor Sobčak, Putin ha mantenuto i contatti col KGB, che ha un’accademia di formazione in città, ma sembra che abbia tagliato ogni legame al momento del tentativo di putsch agosto 1991 contro Gorbaciov. Il sindaco Sobčak era un vero democratico della nuova Russia, e si oppose al colpo di stato pubblicamente e in modo netto, tenendo una grande manifestazione nella piazze dell’Ermitage. Poiché la televisione centrale di Ostankino a Mosca era stata sequestrata dai golpisti, la stazione televisiva di Leningrado è stata l’unica che ha dato voce agli oppositori, e ha raggiunto il pubblico di tutta la Russia europea. Putin rimase al fianco di Sobčak. Entrambi stavano correndo un grosso rischio, se fosse finita diversamente. È questo il momento in cui Putin è diventato un politico, anche se, come si dice (usando il termine popolare per un membro dei servizi di sicurezza), una volta čekista, sei per sempre čekista.

Putin era certamente giunto alla conclusione che il vecchio sistema sovietico aveva fallito e doveva essere sostituito da una nuova Russia, basata su principi diversi. Il suo impegno a questo scopo non era incompatibile né con il suo precedente servizio al KGB, né con la sua educazione legale e la sua auto-identificazione come Gosudarstvennik. In realtà, come si è dimostrato negli anni, era pienamente in grado di assumere ruoli più alti. Va detto che, di fronte al clima di scarsa fiducia di cui godeva a Mosca, Putin ha scelto di affidarsi ai colleghi di Pietroburgo e, sempre più spesso, agli ex membri del KGB.

Nulla nella personalità o nel comportamento di Vladimir Putin a San Pietroburgo aveva fatto sospettare a di coloro che lo conoscevano che era destinato a salire al vertice del potere nella Federazione Russa. Era rispettato da molti, senza dubbio temuto da alcuni, ma la sua fortuna ha avuto un grave rovescio nel 1996, quando ha condotto la campagna per la rielezione del sindaco Sobčak. Il sindaco era stato sfidato da uno dei suoi consiglieri, Vladimir Jakovlev, e ha commesso alcuni errori fatali durante la campagna, culminati in un disastroso dibattito televisivo. Quando Sobčak è stato sconfitto, Putin è stato lasciato senza alcun ruolo. Riuscì in modo molto limitato ad ottenere una consulenza con l’ufficio del Cremlino che si occupava di proprietà statali, che a quel punto venivano in gran parte vendute per fare cassa. Il resto, si potrebbe dire, è storia, ma è certamente al di là del mio tempo a San Pietroburgo, che si è concluso nel 1997.

Putin non ha mai ricercato la presidenza della Russia. È rimasto visibilmente sorpreso dalla sua nomina a Primo Ministro nell’estate del 1999, e ha raccontato di come abbia detto a Eltsin di non sentirsi pronto per quella responsabilità. La sua prima sfida da affrontare è stata quella della cosiddetta Seconda guerra cecena, dopo che la Prima aveva portato ad una drammatica situazione di stallo. Putin ha condotto la partita con ferocia e il suo sforzo ha avuto poi successo, ma è stato preceduto da uno dei tanti episodi che in Occidente hanno fatto connotare Putin come poco più di un criminale. Si tratta dell’attentato a due edifici residenziali a Mosca, che è stato attribuito ai ceceni e ha infiammato l’opinione pubblica russa contro di loro. Degli osservatori occidentali coltivarono l’idea che Putin avesse deliberatamente lasciato sacrificato quelle vittime per radicalizzare l’opinione pubblica. Sono giunto ad una conclusione diversa, che ho inviato in un memorandum al vice segretario Strobe Talbott.

I ceceni sono musulmani sunniti con una storia di feroce resistenza all’espansione nel Caucaso dell’impero russo nel XIX secolo, sotto la guida dell’imam Shamil (in realtà un daghestano), ed erano una presenza inquietante nella Russia europea negli anni ’90. I ceceni gestivano la concessionaria Mercedes a S. Pietroburgo, dove molti veicoli rubati cambiavano di mano, ma pochissimi, se non nessuno, erano nuovi. Durante la Prima guerra cecena, mi avevano preso di mira personalmente, a causa della posizione assunta dal governo degli Stati Uniti a sostegno dell’integrità territoriale della Russia. Subito dopo i bombardamenti dei due edifici residenziali, il nostro Addetto alla Difesa a Mosca ha riferito che gli abitanti di almeno uno degli edifici erano dipendenti del personale militare. Mi convinsi allora, come lo sono adesso, che Putin non avrebbe mai disposto il sacrificio di quelle persone innocenti per il perseguimento di obiettivi politici. Ma, a mio avviso, c’era una persona che avrebbe potuto avere, e aveva, un collegamento con il Caucaso settentrionale: Boris Abramovič Berezovskij, che allora era consigliere per la sicurezza nazionale di Eltsin, o della “Famiglia”, come venivano definiti la moglie e la figlia e il genero di Eltsin.

La Famiglia era preoccupata dalla prospettiva delle elezioni parlamentari previste per il dicembre del 1999 e dalla potente alleanza recentemente creatasi tra Evgenij Primakov e il sindaco di Mosca, Jurij Lužkov. Stavano cercando un modo per posticipare le elezioni e si era pensato che la guerra cecena e il connesso terrorismo potevano giustificare tale mossa. Alla fine, la campagna di Putin si è rivelata vincente; i ceceni sono stati messi al tappeto, e Eltsin ha abdicato a favore di Putin a Capodanno. Potremmo non sapere con certezza come sono avvenuti gli attentati agli edifici (e alcune strane attività del KGB in un altro edificio a Rjazan), ma sono convinto che Putin non sia stato il primo attore.

Nel suo avvio di mandato, Putin fece una serie di gesti amichevoli verso gli Stati Uniti: chiuse il centro di raccolta di informazioni dell’era sovietica a Cuba; chiuse la base navale di Cam Ranh (Vietnam); permise agli Stati Uniti di operare una rotta di rifornimento settentrionale attraverso il territorio russo per rifornire le nostre forze in Afghanistan; e, sebbene si opponesse apertamente alla guerra statunitense in Iraq, assicurò al presidente Bush che la Russia non avrebbe cercato di minare lo sforzo degli Stati Uniti in quel paese. Anche il presidente francese Chirac e il cancelliere tedesco Schroeder si opposero all’azione degli Stati Uniti, ma furono meno franchi al riguardo, facendo arrabbiare Bush e spingendo Condoleezza Rice a dire: “Punire la Francia, ignorare la Germania, perdonare la Russia”. Con l’aggravarsi del disastro in Iraq, l’insoddisfazione russa per le azioni americane è cresciuta; in particolare, c’è stato un incidente in cui un convoglio di diplomatici russi in uscita da Baghdad è stato inspiegabilmente colpito dalle forze alleate, causando diversi feriti.

È comune attribuire personalmente a Putin le crescenti difficoltà dell’America con la Russia, ma le fonti di malcontento russo sono ben precedenti alla sua presidenzaIn particolare, il bombardamento di Belgrado la domenica di Pasqua ortodossa del 1999, che portò l’allora Ministro degli Esteri Primakov a fare un’inversione di rotta sull’Atlantico in viaggio verso Washington, fu preso come atto ostile, oltre che come azione fuori area da parte dell’alleanza NATO, non autorizzata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il corso degli eventi nell’ex Jugoslavia ha avuto alcuni momenti molto pericolosi che avrebbero potuto portare alla guerra, e altri più incoraggianti, ma il risultato finale, con la Serbia privata della sua antica provincia del Kosovo, è stato un anatema per Mosca, che non ne ha mai riconosciuto la legalità.

Forse la più grande fonte di delusione russa, e persino di rabbia, è stata l’inarrestabile espansione della NATO fino ai confini della Russia. I russi sono convinti che il presidente Bush, il segretario Baker e altri leader occidentali, in particolare il cancelliere Kohl, nel loro tentativo di persuadere Gorbaciov a non ostacolare la riunificazione tedesca, avessero promesso che la NATO non avrebbe esteso le sue attività “un centimetro ad est” se Mosca avesse accettato di permettere alla Germania unita di rimanere nell’Alleanza. Ora c’è stato un vivace dibattito su questa presunta promessa, con partigiani della NATO che dicono che non c’era una tale promessa, e se c’era, non è mai stata scritta e comunque non c’è mai stato ufficialmente un consenso di tutti i membri della NATO. L’ex presidente Gorbaciov ha confermato che non c’è mai stato nulla di scritto, ma il bilancio storico è chiaro: l’Occidente ha concluso un gentlemen’s agreement di non espandersi, e poi invece lo ha fatto lo stesso, in due cicli (1999 e 2004).

L’ingresso nella NATO degli Stati baltici, che potenzialmente portava le forze occidentali a soli 80 miglia da San Pietroburgo, con le sue memorie dell’assedio, era abbastanza rischioso (anche se comprensibile; non le avevamo mai riconosciute come parte dell’URSS), ma al vertice NATO di Bucarest nel 2008, gli americani hanno proposto che anche Georgia e Ucraina, due ex repubbliche sovietiche, fossero fatte entrare. Putin si trovava a Bucarest per una riunione secondaria del Consiglio NATO-Russia, e si opponeva alla mossa, che alla fine è stata fermata da Germania e Francia, anche se si continuava a parlarne come aspirata possibilità: “Georgia e Ucraina diventeranno membri”. Fa ancora parte della litania della NATO, anche se quasi tutti si rendono conto che “ora non è il momento”. Non entrerò nei dettagli qui, ma l’avventata espansione della NATO ad Est è stata un motivo, non l’unico, ovviamente, sia nella guerra di quattro giorni con la Georgia e nel conflitto con l’Ucraina, compresa l’annessione della Crimea.

Potrei continuare a lungo, descrivendo le tante cose che hanno spinto la Russia nella sua attuale corsa difensiva contro l’Occidente e soprattutto contro gli Stati Uniti. Le nostre guerre in Medio Oriente (Afghanistan, Iraq, Siria e Libia), che hanno seriamente destabilizzato quella regione; le “rivoluzioni colorate” (Rosa in Georgia, Arancione in Ucraina, dei Tulipani in Kirghizistan); e, forse la più devastante di tutte, la campagna mediatica a tutto campo per marchiare la Russia come una nazione aggressiva da non includere nella nuova architettura di sicurezza europea — tutte queste cose sono molto sentite dai russi. E non possiamo dire di non essere stati avvertiti. George Kennan scrisse già nel 1996 che l’espansione della NATO era un “errore strategico di proporzioni potenzialmente epiche”. E Vladimir Putin, nel suo intervento molto discusso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera del 2007, ha dato voce alle crescenti preoccupazioni della Russia per i modi imperiosi di Washington.

Una questione su cui il Presidente Putin potrebbe aver esercitato una grande influenza, mi sembra, è stata quella della reazione agli eventi in Ucraina, proprio sulla scia delle Olimpiadi di Soči, che Putin aveva previsto come spettacolo a conferma del ritorno della Russia sulla scena mondiale. Un altro potrebbe essere stata la Georgia, soprattutto la decisione di riconoscere l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, che Putin potrebbe aver visto come “vendetta” per lo smembramento della Serbia. Naturalmente, tutti questi (e la Crimea) si trovano nel cosiddetto “Vicino Estero” [Near Abroad], sul quale Mosca rivendica diritti speciali. L’Occidente contesta questa affermazione, ma non è così diversa dalla convinzione della Francia di detenere una responsabilità speciale nei confronti dei Paesi che prima facevano parte del suo impero coloniale.

L’ascesa di Putin al Cremlino è stato un ritorno alla norma per la Russia, non un passo indietro sull’inevitabile traiettoria che noi in Occidente avevamo immaginato per essa. Quello che dobbiamo fare ora è confrontarci seriamente all’interno della comunità euro-atlantica, pensare di nuovo alla sfida che ci viene posta dall’ostracismo verso la Russia, e cominciare a riparare i danni, cominciando con l’Ucraina.

L’elezione di Volodymyr Zelens’kyj può essere l’occasione giusta. Data la situazione a Washington (e a Londra), appare inevitabile che siano i leader europei a dover prendere in mano la questione. Macron si è già messo in gioco. Dovremmo lasciare che essi facciano del loro meglio. Dobbiamo fare i conti con il fatto che la Crimea non tornerà mai sotto la giurisdizione ucraina, e che l’adesione dell’Ucraina alla NATO supererebbe una linea rossa rispetto ai russi. La formula dell’ambasciatore Steve Pifer, “non ora, ma non mai”, può fornire una via d’uscita che salva la faccia per tutte le parti. Ucraini e russi stessi, con il nostro appoggio morale, dovranno capire esattamente su cosa possono essere d’accordo riguardo al Donbass. Una qualche forma di federalizzazione è un concetto davvero così impossibile per un Paese enormemente diverso come l’Ucraina? È un sistema che funziona per il Canada, con la sua profonda divisione storica, per gli Stati Uniti e la Federazione Russa. Dovrebbe almeno essere tenuto in considerazione.

Per quanto riguarda la Crimea, dobbiamo ricordare che il processo di raggiungimento del “Grande Accordo” sulla regione è stato molto lungo e difficile, e sarebbe scaduto quest’anno se non fosse stato abbandonato da Porošenko. L’Ucraina ha affittato impianti navali alla Russia in cambio di concessioni per il gas; queste condizioni non esistono più. L’Ucraina può avere il coltello dalla parte del manico in termini di legalità internazionale e supporto diplomatico, ma la Russia detiene le carte del potere e il possesso fisico vale almeno i nove decimi del diritto internazionale. Mosca si rifiuterà semplicemente di discutere la questione del ritorno della Crimea alla giurisdizione ucraina, ma la Russia ha bisogno di cooperazione su questioni come il trasporto e la sicurezza dell’approvvigionamento idrico, mentre l’Ucraina ha bisogno di cooperazione sulla navigazione e su altre questioni; c’è quindi qualcosa di cui parlare. Innanzi tutto, e con la massima urgenza, il conflitto armato nel Donbass deve finire. Senza una via diplomatica plausibile, sarà difficile, se non impossibile, fermare i combattimenti. Anche con un tale processo diplomatico in vista, potrebbe essere ancora irraggiungibile. L’Ucraina e la Russia possono rimanere estraniate per una o più generazioni.

A mio avviso, Putin non è il demonio e forse lo abbiamo frainteso. Questo non fa di lui un angelo. Ma imputare tutto il male alla Russia — o a qualsiasi altro paese — sulla base della personalità, per giunta immaginata, del suo leader è un gioco pericoloso. La Russia ha ereditato una formidabile élite militare e diplomatica, ha un senso ben sviluppato della sua storia e del suo ruolo nel mondo. Al di là della facciata, che così tanto affascina il pubblico occidentale, ha una vera politica e un’opinione pubblica che deve essere presa sul serio da qualsiasi leader. Immaginare, come alcuni, che Putin sia “il problema”, e che quando uscirà di scena tutto andrà bene, è un’ingenua illusione. Come ha detto una volta il grande diplomatico e russologo Tom Graham, “Non abbiamo un problema Putin, abbiamo un problema Russia”. Ed è un problema in parte da noi causato — ma incolpare Putin è molto più facile che fare i conti con le nostri stessi errori.

John Evans è stato console generale degli Stati Uniti a San Pietroburgo dal 1994 al 1997.

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