Nel 2013 avevo già visto la malparata durante un viaggio al Londra, quando all’aeroporto venni accuratamente ispezionato da un esponente di quell’etnia che gli italiani più aggiornati hanno imparato a definire pajeet (miscuglio indefinito di indo-bangla-pakistan), il quale prima di me aveva fatto passare senza nemmeno una palpatina un suo “connazionale”, e dopo di me si era trovato al cospetto di due biondone nordiche che non avrebbe mollato per parecchi minuti (si può immaginare la professionalità di individui che passano il tempo sui social a chiedere fotografie di “tette e vagina” a qualsiasi profilo abbia come avatar un qualcosa di simile a un soggetto femminile).
A parte che il pajeet era talmente incapace che non riuscì nemmeno a trovarmi in tasca un rosario in plastica con attaccato un portachiavi col volto di Guy Fawkes (l’avevo portato non solo per provocazione, ma anche per finire in Paradiso nel caso fosse precipitato in aereo o fossi morto in terra di scismatici degenerati), ad ogni modo quell’episodio mi fece capire che l’andazzo di “diversificare” gli addetti all’ordine pubblico (in senso generale) avrebbe rappresentato per gli immigrazionisti una prosecuzione della loro guerra con altri mezzi.
E dopo pochi anni, in effetti, cominciai a percepirne gli effetti anche a Gaylano, quando vidi un magnifico esemplare di Mandingo (s’intende l’etnia africana, non la tipica espressione fantozziana) assunto dalle Ferrovie dello Stato per poter in qualche modo arginare l’orda nera (s’intende in senso epidermico e non politico) che quotidianamente utilizzava i treni non solo come taxi (ovviamente a titolo gratuito), ma anche come spogliatoio, dormitorio, sfogatoio e cagatoio, senza l’ipoteca del rasismo.
In verità l’iniziativa non mi aveva colpito più di tanto, perché più che sordide manovre terzomondiste avevo intravisto in essa una dinamica obbligata che già aveva portato la Grande Distribuzione Organizzata ad assumere come vigilanti degli stalloni senegalesi per interrompere il dolorosissimo ciclo della sofferenza che portava gli ingenui visi pallidi a evitare la più informale delle perquise ai taccheggiatori equipaggiati con “pelle di ebano di un padre indigeno e occhi smeraldo come il diamante”. Evidentemente, in nome di qualche principio liberale elaborato nelle logge, lo Stato stava imitando il Mercato per poter fingere di aver sopperito ai buchi di bilanci allo scopo di svendere una delle sue tante aziende al peggior offerente internazionale.
Ora tuttavia ho notato una evoluzione/involuzione più preoccupante, specialmente per una città ridicola ed effeminata come Milano: l’assunzione, sempre da parte delle Ferrovie (non so quale acronimo abbiano adottano in vista della privatizzazione, FS, FSI, RFSI, RFI ecc), di energumeni slavi prelevati senza dubbio dai servizi di sicurezza delle discoteche, la cui forma mentis porta a riconoscere il “nemico” nel tipico avventore dei locali in questione anche qualora il soggetto attenzionato (io, per esempio) non le abbia mai frequentate nemmeno negli anni verdi.
Si dà il caso che la “geniale” intuizione di mettere ai tornelli agli ingressi ai treni in Stazione Centrale, implementata (come si dice oggi) da un anno a questa parte abbia portato all’ovvia apocalisse: non c’è tempo per far scansionare i QR code alla fiumana di visitatori giornalieri, dunque per ridurre almeno di qualche minuto le code di ore che allo stato attuale si formano all’ingresso dei cancelli dell’inferno, tali ex buttafuori si mettono a fare dei controlli a campione nella prospettiva del tipico troglodita, che con una irascibilità dovuta probabilmente alla troppa cocaina (la “benzina” necessaria per lavorare nel settore di provenienza) si mette a prendere a bestemmie l’ultimo dei fessi che paga il biglietto.
Si dà ancora il caso che il pippabamba dell’Europa danubiana con il sottoscritto sia capitato male, per il semplice motivo che frequentando il Veneto ormai da qualche tempo ho imparato purtroppo a servirmi della bestemmia come veicolo di espressione elettivo delle mie rimostranze, e di conseguenza ho avuto agio a far intendere all’orco ruteniano di turno che il suo atteggiamento era chiaramente inopportuno, visto che rischiava di farmi perdere un treno che comunque sarebbe stato pieno fino al limite di “facce strane di una belleffa un po’ disarmante”, le quali avrebbero avuto immediato accesso non solo nelle stazioni di Porta Genova, Garibaldi o Lambrate, ma che all’altezza da Brescia fino almeno a Padova si sarebbero servite di quello stesso mezzo come una volpe in una notte di luna piena si serve di un pollaio incustodito.
Insomma, per concludere, Milano è riuscita a regalarmi l’ennesima rappresentazione plastica dell’anarco-tirannia in modalità che coniugano perfettamente lo svaccamento all’imprevedibilità. Al prossimo giro mi aspetto ai tornelli una replica del video di Tri Paloski con tanto di tute adidas come nuova divisa ufficiale dell’azienda. Nel frattempo, come incoraggiamento, la città si è riempita di manifesti di una donna dalla carnagione color cioccolatte che dovrebbe rappresentare il “volto del futuro” del trasporto pubblico meneghino.