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Cavalcare la tigre? Basta stronzate evoliane, dai

Ogni tanto mi piace ironizzare sulla CURTURA DE DESTRA in Italia postando un video in cui Pino Insegno, durante una puntata della trasmissione Mercante in Fiera (trasmetta da Mediaset nel 2006) ammonisce un concorrente che sta rischiando tutto al gioco nei seguenti termini: “Dice una massima cinese: Facile cavalcare una tigre, difficile scendere (qui il video). Allora io mi sono inventato che abbia preso il motto dallo storico saggio di Julius Evola Cavalcare la Tigre (1961) soltanto per trollarvi.

Naturalmente Pino Insegno non è “fascio” o altre robe, ma è solo amico personale di Giorgia Meloni e si è fatto una nomea di camerata per aver doppiato due o tre personaggi di opere che nella cultura popolare attuale sono considerate de destra (il che è tutto dire), cioè Il Signore degli Anelli, American Dad e Borat (oltre al fatto che è laziale, ma almeno non è ebreo, a differenza di Paolo Bonolis).

E naturalmente la massima deve averla presa proprio dalla “cultura cinese” (biscottini della fortuna? almanacchi dell’autogrill?) e non dall’opera di Evola, anche se non posso escludere qualche fraintendimento di fondo (magari Pippo Franco gli ha suggerito di leggerlo e lui Ammazza che sta’ a scrive questo aho me pija a cecagna): dico ciò perché il Barone Nero si inventa un’interpretazione del “detto estremo-orientale” opposta a quella che eventualmente potremmo considerare “tradizionale”.

«Il passaggio da quanto si è detto fin qui a quest’ordine di idee può esser dato dalla formula scelta come titolo del presente libro: Cavalcare la tigre. È, questo, un detto estremo-orientale, esprimente l’idea che, se si riesce a cavalcare una tigre, non solo si impedisce che essa ci si avventi addosso, ma, non scendendo, mantenendo la presa, può darsi che alla fine di essa si abbia ragione. A chi interessi, si può ricordare che un tema analogo lo si ritrova in scuole della sapienza tradizionale, quali lo Zen giapponese (le varie situazioni dell’uomo col toro); mentre esso ha un parallelo nella stessa antichità classica (le vicende di Mithra che si fa trascinare dal toro furioso e non lascia la presa, finché l’animale si arresta: allora Mithra lo uccide)».

Ora, il proverbio cinese esiste sul serio: 骑虎难下 [Qí hǔ nán xià], cioè letteralmente Cavalcale tigle, difficile scendele. Di tutte le possibili spiegazioni, tuttavia, quella ottimistica (“solare”? lol) di Evola è la meno valida: esso in realtà equivale più ai nostrani “Fare il passo più lungo della gamba”, “Chi troppo vuole, nulla stringe”, Chi troppo in alto sal cade sovente eccetera. Non dovrebbe valere come “linea programmatica”, specialmente dalla prospettiva della sapienza orientale che invita sempre alla cautela e alla ponderazione.

Dunque Cavalcare il tigrotto non dovrebbe significare saltare in groppa alle forze dissolutrici e caotiche della modernità per sfruttarle al proprio vantaggio, come invece ha fatto la destra postbellica infilandosi in un vicolo cieco dopo l’altro (paganesimo, atlantismo, sionismo, froceria, discoteche, ibridazione, transumanesimo, uliganismo ecc.), ma al contrario darsi una bella calmata ed evitare di cacciarsi nei guai. Purtroppo Evola ha spacciato questo veleno per l’anima, e ora ci troviamo in tempi interessanti e hard.

Peraltro sono costretto a confessare, ma probabilmente lo avrete capito, che Evola proprio non riesco a sopportarlo: ogni volta che lo sento nominare devo sempre scusarmi per essermi portato la mano ai coglioni. Non voglio dilungarmi, perciò ve ne dico solo una: non è un caso che in Teste Rasate sia il commerciante ebreo a regalare al protagonista Teoria dell’individuo assoluto, perché un testo del genere potrebbe valere sia per il sionista che vorrebbe che i fasci abbandonassero la loro “prigione” ideologica, sia per il post-sessantottino alla prese con il cosiddetto “riflusso”.

Non so però a chi potrebbero interessare certe discussioni al giorno d’oggi, dunque mi limito a interrogarmi sulla “fonte” da cui J.E. avrebbe attinto il proverbio: per quel che mi riguarda, nutro diversi dubbi sul fatto che egli si muovesse in modo agevole fra i testi della tradizione “estremo-orientale”. Da alcune mie ricerche, svolte ormai in tempi lontanissimi, avevo individuato una probabile origine nei lavori di Emilio Cecchi ed Elio Vittorini, gli “americani” perfettamente integrati nello spietato regime fascista (non val più la pena discutere nemmeno di questo).

Cecchi, per esempio, usava descrivere la letteratura d’oltreoceano col “proverbio cinese” Chi cavalca una tigre non può più scendere, riflettendo sull’indissolubile legame tra gli scrittori americani e la frenesia, il caos e la violenza. Mentre Vittorini pose a esergo della prima edizione delle sue memorie Diario in pubblico (1929-1956) lo stesso motto, presentandolo come “antico proverbio indiano”, e commentando: «Ma chi ha voglia di scendere? Noi supponiamo che anche la tigre (basta resistere) può essere domata».

Tale giudizio ricalcava peraltro un concetto espresso nel n.30 (giugno 1946) del “Politecnico”:

«“Chi cavalca la tigre non può scendere” si dice. E perché, nella vita umana, si dovrebbe scendere? La vita degli uomini è tigre, è tensione, e torna giusto che ne sia mangiato chi voglia scendere. Ultimo dei preti feroci, Jonathan Edwards, è allo stesso tempo il primo nella linea di scrittori che si chiamano Poe, Hawthorne, Melville, Whitman, eccetera».

Capisco che sia imbarazzante ammetterlo, ma a me pare si possa pacificamente giungere alla conclusione che Evola abbia tratto il suo adagio distintivo da un contesto decisamente poco “tradizionale”, il che spiegherebbe anche perché nella sua prosa esso non è né “cinese” né “indiano”, ma estremo-orientale.

Per il resto, in cauda venenum, mi permetto di osservare che mentre noi languiamo sotto il dominio della destra frocia (che vorrebbe cavalcare facendosi cavalcare), la “sapienza cinese” vien dietro a gran giornate, con Xi Jinping che detta le regole agli Stati Uniti esprimendo un altro concetto simile (dal punto di vista orientale) al “Cavalcare la tigre”: Chi ha legato il sonaglio al collo della tigre deve toglierglielo [解铃还须系铃人, jiě líng hái xū xì líng rén].

In quella occasione il Presidente cinese ammonì Joe Biden sulla necessità di far giungere a più miti consigli Putin nei confronti dell’Ucraina, sostanzialmente comunicandogli che non è colpa di Pechino se Washington ha deciso di “fare il passo più lungo della gamba” espandendo la Nato alle porte della Russia. Non è però la prima volta che Xi si rifà a tale adagio per mandare segnali politici: nel 2014, per esempio, si rivolse in egual modo ai giornalisti stranieri che si lamentavano delle difficoltà nell’ottenere il rinnovo dei visti (invitandoli indirettamente a non continuare a parlar male della Cina).

L’opposto della pedagogia evoliana, in poche parole: ma quale sarebbe l’atteggiamento vincente nella nostra epoca? Dipingere i propri vizi e manchevolezze come “tigri”, farsi contagiare dalla sindrome accelerazionista per andare a schiantarsi continuamente? Oppure riscoprire la “sapienza” che ci ha reso grandi, la quale non accetterebbe mai compromessi con la decadenza e il disfattismo?

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