L’altro giorno sono stato in uno di quei falansteri che raccolgono materiali di qualsiasi genere, dai battiscopa alle salopette da lavoro, dai sanitari alla segnaletica cantieristica.
Ho notato che la dimensione di questi luoghi aumenta esponenzialmente quanto più ci si addentra in provincia, raggiungendo profondità inaspettate anche per i tempi che corrono.
Quello in cui mi sono recato rappresentava in effetti uno dei casi estremi, modellato inconsciamente sull’idea celeste di un’inesauribile cornucopia dell’utensileria. Solo un animo prosaico, come quello di un qualsiasi poeta odierno, sarebbe rimasto indifferente alla magnificenza degli ambienti, che superano in qualità e disposizione qualsiasi museo di arte contemporanea.
Avrei voluto immortalare alcuni angoli di questo superbo magazzino, ma forse non sarebbe parso un atteggiamento opportuno, nonostante anche il accompagnatore (mio cugino acquisito, nella fattispecie) nutrisse un animo altrettanto sensibile da cogliere, per esempio, la mise en abyme di una sequenza di porte il cui ultimo esemplare apre su di uno specchio da bagno.
Giunti infatti al reparto sanitari, la tentazione è diventata irresistibile: lo spettacolo dei cessi allineato ha invocato una testimonianza fotografica che col senno di poi appare davvero come un furto d’anima, poiché non rende l’effetto (e)scatologico che liquida cent’anni di ready-made duchampiano ricollocando, almeno teoricamente, l’archetipo di cessità nel suo luogo d’elezione, l’iperuranio o “mondo delle idee”.
In verità non ci sarebbe neppure bisogno di spingere il discorso a un livello eccessivamente astratto o concettuale: anche chi ha dei gusti più elementari, se non pacchiani, può comunque godere di alcuni squarci adatti a coinvolgerlo, come il reparto da illuminazione di esterni allestito come una festa paesana ridondante di addobbi e “parature”.
Ad ogni modo, è il colpo d’occhio di decine di cessi che si inseguono ad avermi ispirato il titolo per una specie di mostra itinerante da replicare in ogni punto vendita: Che cessi (l’immagine); cioè che l’immagine smetta di rappresentare un ostacolo tra l’arte e la vita, e che finalmente la nostra epoca scopra la sua essenza più intima senza bisogno di alcuna mediazione.