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Chi ride ultimo…

Stefano Leo era un trentatreenne biellese che una mattina di febbraio a Torino è stato sgozzato da un marocchino. Le motivazioni del gesto restano ancora oscure, anche se l’assassino ha rilasciato dichiarazioni poco equivocabili:

«Ho colpito un bianco, basandomi sul fatto ovvio che giovane e italiano avrebbe fatto scalpore. Mi bastava che fosse italiano, uno giovane, più o meno della mia età, che conoscono tutti quelli con cui va a scuola, si preoccupano tutti i genitori e così via. L’ho guardato ed ero sicuro che fosse italiano. […] Volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, dei figli, toglierlo ai suoi amici e parenti».

Gli inquirenti hanno avanzato tra le ipotesi anche che il marocchino abbia potuto confondere la vittima con il nuovo compagno dell’ex moglie, tuttavia i giornalisti hanno preferito concentrarsi esclusivamente su un’altra dichiarazione trapelata: «Quando ho visto quel ragazzo ho deciso che non potevo sopportare la sua aria felice». Da qui la schwarze Magie della grande stampa ha tratto lo spin della “troppa felicità” come unico movente, per l’ovvio timore che l’opinione pubblica si trovasse “costretta” a discutere di immigrazione (o anche di malattia mentale, altro tema divenuto tabù dopo Basaglia), arrivando a confezionare pezzi talmente stucchevoli da risultare quasi offensivi nei confronti di Leo.

Ad esempio, il “Corriere” ha voluto calcare la mano descrivendolo come una figura a metà strada tra un monaco tibetano e un guru indù (Stefano Leo: il lavoro, i viaggi nel mondo e la sua vita felice, 2 aprile 2019)

«Il ricordo più bello arriva da un mondo che è a più di sedicimila chilometri di distanza dal nostro: “Nessuno avrebbe potuto rubargli la felicità, neppure chi l’ha ucciso ci è riuscito”. Nel Krishna Village Eco-Yoga di Eungella, nel Nuovo Galles del Sud, Stefano Leo era “l’anima candida che accoglieva altre anime candide, un uomo incredibilmente buono e con un cuore straordinariamente grande”.
[…] Nel settembre dello scorso anno era rientrato in Italia e si era portato dietro quella “pace interiore” che in tanti gli invidiavano. E che deve aver impressionato anche l’assassino, che per più di 40 minuti è rimasto seduto su una panchina di fronte al Po in attesa che “passasse quello giusto” da aggredire. E “quello giusto” era Stefano, perché portava sul volto i segni inconfondibili della felicità. “L’ho scelto per quello”, ha confermato il 27enne marocchino Said Mechaquat quando si è presentato dai carabinieri per confessare il delitto. «Aveva un’aria felice e così l’ho accoltellato alla gola“.
[…] “Stefano era una bella persona”, dicono adesso dal negozio in centro a Torino. “Era sereno, felice, sempre disponibile. Era amico di tutti, era un’anima pura“. Stefano era il ragazzo che non alzava mai la voce, che affrontava ogni situazione con il sorriso sulle labbra. Era convinto che fare del bene fosse la cosa più naturale del mondo. Era single e vegano […].
Un’amica che oggi vive a Londra […] continua a ripetere che “nessuno avrebbe potuto fargli del male, perché lui non avrebbe fatto del male neppure a una mosca“. Quel messaggio è delle 10.50 del 23 febbraio: qualche minuto dopo, Stefano sarebbe stato assassinato. Ucciso senza motivo, si direbbe in questi casi. “L’ho ucciso perché era felice“, ha precisato l’assassino».

La riproposizione ossessiva dello spin ha chiaramente l’obiettivo di introiettare a tutti i costi nel lettore l’idea che la “felicità” di questo povero cristo fosse così sfavillante da sembrare quasi provocatoria. Invece Stefano Leo era, nel bene e nel male, un ragazzo come tanti, che non aveva nessun obbligo di sfoggiare chissà quale sorriso a 32 denti mentre andava a lavorare in un negozio d’abbigliamento: al contrario, poteva essere benissimo scazzato e annoiato come tutti. Il fatto che per chi l’ha sgozzato rappresentasse una “provocazione vivente” non ha nulla a che fare con la felicità, perché è l’assassino stesso a dircelo: “L’ho ucciso perché era bianco e italiano.

Nonostante le nostre idee politiche fossero probabilmente agli antipodi, non riesco a porre Stefano Leo al di sopra o al di sotto di me stesso: anzi, a dirla tutta in alcuni risvolti esistenziali lo sento molto vicino a me, non solo per il lavoro sottopagato e il “basso profilo” di una vita ridotta ai minimi termini (casa e bottega), ma anche per l’urgenza di allargare il proprio orizzonte, seppur espressa chiaramente in modi diversi.

Dunque non mi va di relegare questo mio coetaneo nell’iperuranio della bontà assoluta, né tanto meno nelle tenebre dell’incompatibilità politica, come se le sue opinioni probabilmente favorevoli all’immigrazione avessero qualcosa a che fare con la sua fine ripugnante. Io sono Stefano Leo, così come sono ogni vittima di Kabobo (anche loro “nel posto sbagliato al momento sbagliato”) e qualsiasi altro martire italiano il cui nome è confinato nel recinto della cronaca locale (ricordiamo un caso praticamente identico avvenuto a Prato nel 2017 e che, come tanti altri, non ha avuto alcuna risonanza mediatica).

Più di così però non posso: ne andrebbe della sincerità, nonché della credibilità, del mio compianto. Soffrire per il “meno prossimo” è una semplice esibizione di virtù, quello che gli anglosassoni definisco virtue signalling. Piuttosto è chi ci assomiglia troppo a costringere a un esame su se stesso, sul proprio presente e futuro.

Per questo la storia di Stefano mi ha fatta tornare in mente un’altra vicenda (che forse non c’entra niente o forse è proprio la stessa cosa): quella di Alberto Ferretto, un regista ventinovenne aggredito senza motivo da una banda di stranieri davanti a un locale. Nel dicembre dell’anno scorso ha voluto pubblicare sul suo profilo Facebook una foto in cui mostrava sorridente i quattro denti che gli hanno fatto saltare con un calcio in bocca mentre era a terra, accompagnata da un commento che è doveroso riportare per intero:

«OGGI È UN GRANDE GIORNO.
Oggi, dopo 40 giorni, vado a riprendere quello che mi è stato tolto, i denti. Gli zigomi sono ancora gonfi ma il medico mi ha assicurato che si sistemeranno da soli. Oggi è anche il giorno in cui penso che ci sono cose che ti puoi riprendere e altre che ti sono state tolte, per sempre. La dignità è una di quelle cose che non recuperi andando dal medico, non lo so quanto tempo ci vorrà per colmare tutto questo.
Il 1 novembre 2018, dopo una serata con fidanzata ed amici, all’uscita di un locale vicino a casa, sono stato selvaggiamente aggredito da un gruppo di persone finendo in ospedale con una prognosi di 40 giorni, tra cui trauma cranico, danneggiamento di 6 denti, di cui 4 completamente persi, labbro aperto, zigomi fratturati e contusioni a schiena, gambe ed altre parti del corpo.
Prima di continuare, vorrei che capiste la situazione, provando ad indicarvi, con il pollice e con l’indice, quanti sono per voi 2 cm. Si perché il calcio che mi è arrivato in bocca, quando ero a terra, mi ha preso la parte superiore e questi centimetri sono la distanza che mi ha salvato dal peggio. È la distanza che divide la gengiva dal naso e, con altissime probabilità, come sottolineato dai medici, non sarei qui a scrivere queste parole.
Decisi di non pubblicare niente né sui social né sui giornali, anche se fui chiamato da più persone. Successivamente ho ragionato sulle parole delle centinaia di persone che mi hanno scritto in questo mese e che ringrazio ancora tanto. Mi sono immedesimato in frasi come: “se fosse successo a mio figlio”, “ho paura per mia moglie” e molto altro..
Quindi, dopo 5 giorni di ricovero in ospedale, chiamai un mio caro amico, un bravissimo ritrattista, con cui ho voluto fermare questo momento, per sempre. Facevo fatica a ridere, tra gonfiore, gengiva, zigomi e devo essere sincero, non ho sorriso molto in queste settimane, a parte quando mi hanno detto che l’edema che avevo in testa si era assorbito bene e non essendoci complicazioni, sarei potuto andarmene dal reparto di neurologia.
Non l’ho fatta per pubblicarla, adesso invece vorrei che questa foto venisse condivisa, perché è un sorriso di rivincita, un sorriso di rivoluzione ad una società che sta andando a rotoli e, anche se per uno sguardo mal interpretato dovrò subire interventi per tutta la vita, non mi piace l’idea di dovermi piegare a persone che non hanno il senso della civiltà. Mi sento a disagio ma è giusto condividere, è giusto farlo.
Non voglio sfoghi razzisti, anche se come molti di voi sanno, alcune delle persone che hanno compiuto questo gesto non sono italiane. Non cerco questo e non voglio assolutamente alimentare l’odio verso altre popolazioni. Sono qui per trasmettere gioia, grinta e voglia di vivere perché mi sto interrogando sulla direzione di questa società e visto che la società siamo noi, dobbiamo avere tutto l’interesse per cambiare le cose.
Io posso farlo, altri ragazzi coinvolti in episodi simili ai miei, non più. Io porterò i segni per una vita intera, ma posso divulgare questa foto con il sorriso, certo, perché io posso e devo sorridere a questa vita.
Auguro un sereno dicembre a tutti e ancora grazie per i vostri messaggi»

Ricordo che quando lessi la notizia imbattendomi nella foto di Ferretto, non potei fare a meno di ridere e commuovermi allo stesso tempo. L’immagine mette infatti addosso una strana euforia, forse anche per l’ottima resa estetica, a metà tra un autoritratto fiammingo e le provocazioni della pop art (tra le quali annoveriamo la demenziale moda internettiana di togliere i denti alle celebrità). Al contempo però invita a riflettere su quanto possa essere grande e miserabile l’essere umano, sul labile confine tra civiltà e barbarie, sulla forza morale dei piccoli gesti.

Anche in tal caso, le mie posizioni politiche sono agli antipodi di quelle di Ferretto, eppure non mi sento in imbarazzo nell’arrogarmi il diritto di vedere in quel volto martoriato il prezzo di sangue pagato da migliaia di italiani a causa dell’immigrazione. Quel sorriso insolito, che nella sua atipicità sembra quasi una smorfia irriverente, è una piccola vendetta verso le belve che hanno voluto trasformare le nostre periferie in zone di guerra. Come a dire, “Voi ci ammazzate e noi ridiamo”. L’italianità è dura a morire, e quel sorriso ora è anche quello di Stefano Leo.

Vorrei concludere in cauda venenum proprio con una punta di italianità: nel nostro idioma non ci sono molti equivalenti di un concetto invece sempre più diffuso nell’anglosfera, quello del Nice Until We’re Not, espresso anche nelle forme classiche del motto di John Dryden, Beware the fury of a patient man. (Mi viene in mente solo il sommesso “io sono buono e caro, ma se…” o la pseudo-biblica “ira dei giusti”). Tuttavia, ne abbiamo recepito uno ancora più antico, He who laughs last laughs best (“Hee laugheth best that laugheth to the end”), che forse non per caso ha un corrispondente in tutte le lingue europee (Wer zuletzt lacht, lacht am besten, Rira bien qui rira le dernier, El que ríe al último ríe mejor): Ride bene chi ride ultimo. Non dimenticheremo mai tutto questo orrore, e un giorno troveremo occasione per riderne, in un modo o nell’altro.

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