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Cinque film in cinque minuti: dal tributo a William Friedkin a thriller spoilerati a nastro

Voglio liquidare qualche film in arretrato da recensire, con l’avvertenza che spoilero quello che non mi piacciono.

L’ESORCISTA (1973)

Comincio con un doveroso tributo a William Friedkin, regista appena scomparso. Il suo Esorcista rimarrà nella storia come opera affascinante e ambigua, non solo da un punto di vista religioso ma anche “politico”: penso, per esempio, al sottile (ma neanche poi tanto) collegamento tra la possessione e la contestazione (che fa capolino nella pellicola nelle scene di proteste post-sessantottine e negli episodi di vandalismo anticristiano). Sull’ambiguità religiosa c’è poi poco da aggiungere, anche perché ormai molti si sono convinti che gli esorcismi siano davvero una roba del genere (e che includano, tra le altre cose, la richiesta di possessione da parte del prete, divenuta in seguito un topos del filone: si pensi all’ultima baracconata con Russel Crowe).

Altri dettagli che credo siano sfuggiti ai più: Satana arriva con Halloween e la tavola ouijia, due feticci della “spiritualità americana” (che abbiamo deciso di importare anche da noi); nel film compare una pregevole caricatura del tipico regista ebreo hollywodiano (Burke Dennings, che peraltro insulta un domestico di origine svizzera, credendolo tedesco, insinuando abbia qualcosa a che fare con l’Olocausto), mentre un altro medico ebreo, dopo aver avanzato spiegazioni positivistiche, suggerisce che l’esorcismo possa esser condotto anche da un rabbino (non so se tali episodi siano presenti anche nel romanzo, un giorno -con molta calma- lo leggerò).

Credo non fosse volontà di Friedkin fare del suo capolavoro una sorta di bigino di teologia per le masse (ma così purtroppo è stato recepito, come dimostrano, per fare due esempi, questo commento su Amazon dove viene appunto evocato contro l’utilizzo delle tavole ouijia, oppure Bruce Springsteen che considera il fatto di aver avuto paura guardandolo da piccolo una dimostrazione dell’indelebilità della sua fede cattolica), tanto che sembra abbia voluto rimediare con l’imbarazzante documentario su Padre Amorth (recensito qui), classico caso di toppa peggiore del buco. Probabilmente il suo intento era positivo, ma in definitiva non si capisce quale fosse. Valuterà Jesus

ON THE LINE (2022)

Demenziale thriller diretto da Romuald Boulanger che ho guardato solo perché il protagonista è Mel Gibson (o forse Ezio Greggio), che interpreta il tipico boomerone col suo tipico mestiere da boomerone (conduttore di un programma radiofonico notturno dove “dice le cose come stanno”), incappato in un diabolico piano ordito da un tizio che vuole vendicare una collega suicidatasi per colpa delle sue battutacce maschiliste. Il film ha una morale piuttosto elementare: da una parte “Chi la fa l’aspetti”, dall’altra “Il gioco è bello quando dura poco”. Chi vuole vederselo non legga altre recensioni perché viene spoilerato senza pietà (giustamente perché ha fatto schifo un po’ a tutti): l’unico dato positivo è che si tratta di uno dei pochi thriller in cui le incongruenze  (come quando il protagonista non avvisa uno sbirro della bomba presente negli studi) vengono spiegate con il finale a sorpresa (mentre di solito restano lì come buchi neri nella trama).

In ogni caso, molti hanno notato somiglianze (ai limiti del plagio) con diverse opere, come The Game di David Fincher, The Guilty (film danese rifatto dagli americani) e persino l’italiano Il talento del calabrone. Visto che li ho citati, li liquido qui di seguito.

THE GAME (1997)
THE GUILTY (2018, 2021)
IL TALENTO DEL CALABRONE (2020)

The Game è un film di pregevole fattura nonostante abbia come protagonista un Michael Douglas incastrato -penso per sempre- nel ruolo di arrogante magnaschei. Mi permetto di spoilerare perché in fondo la qualità dell’opera è più nella recitazione che nel “finale a sorpresa”: il ricchissimo imprenditore Nicholas Van Orton, annoiato dai suoi miliardi, decide di infilarsi nel mondo dei giuochi di ruolo e finisce per essere perseguitato dalla Consumer Recreation Services, una organizzazione pseudomassonica specializzata nella persecuzione dei ricchi a scopo ludico. Alla fine si scopre che era tutto uno scherzo organizzato per il suo compleanno dal fratello (Sean Penn, che almeno sotto un aspetto per Douglas è davvero come un fratello).

The Guilty (Den skyldige) è la solita storia dello sbirro che viene demansionato a centralinista per aver ammazzato qualcuno per sbaglio, ma che riesce a riscattarsi risolvendo per via telefonica un caso di tentato femminicidio che poi si rivelerà tutt’altro (ha ragione il maschio, quindi mi è piaciuto). Immaginate un thriller americano girato con lo stile monotono e uggioso di un regista danese, e avete quel che oggi si definisce “film d’autore europeo”.

La versione americana, con Jake Gyllenhaal, è un onesto thriller americano (è americano) ma senza i quartieri a luci rosse e la criminalità magrebina, dunque non può assurgere allo status di “film d’autore europeo” (e nemmeno americano, dato che la categoria per i critici italiani non esiste).

Il talento del calabrone è un noir italiano con Sergio Castellitto ambientato a Milano ma girato interamente a Roma con il contributo di Amazon Prime e Regione Lazio (e già ho detto tutto): la pandemia era riuscito a fermarlo, ma poi non c’è stato nulla da fare e il pubblico si è dovuto sorbire l’ennesima rappresentazione plastica del declino inarrestabile del nostro cinema.

Un padre vuole vendicare il figlio morto suicida a causa delle angherie di un bulletto che nel frattempo ha fatto carriera nel mondo dell’intrattenimento (se non altro la trama è credibile, visto che il master in bullismo è una delle principali qualificazioni richieste per entrare nel mainstream italiano), quindi si improvvisa terrorista ma alla fine riesce solo a regalare ancor più successo al Tommy Ricciolino della situazione. Castellitto a parte (che pure si perde continuamente in monologhi sussurrati ed esasperanti), gli altri attori sono impresentabili, oltre che legnosi, impacciati e pacchiani persino nel rappresentare la pacchianeria. Soprattutto la tizia che fa la “colonnella”, la quale a tratti giunge a regalarci una versione femminile di Alex l’ariete: dopo ore di scleri, urla e piagnistei con pistole puntate a caso, tocca l’apice della sua performance immobilizzando l’aitante conduttore al muro… Capisco che qualcuno abbia potuto gridare al capolavoro per l’originalità della trama e qualche inquadratura riuscita, ma è solo perché il nostro senso estetico è stato degradato da decenni di merda ingurgitata come tale (fiction) o spacciata per cioccolato (cinema d’autore).

THE GOOD NURSE (2022)

Quelli sopra, contando il remake (americano, non so se l’ho detto) di The Guilty, in realtà sono quattro, quindi siamo già a sei ma uno ve lo abbuono. E visto che siamo in vena, vado col recentissimo The Good Nurse, non un semplice thriller ma un biographical crime thriller “tratto da una storia vera” (quindi inverosimile fin dalle prime battute) su un infermiere che si diverte ad ammazzare la gente. E perché? “Boh, l’ho fatto e basta” è la sconvolgente risposta che darà nel finale, aggiungendo che “Loro non mi hanno fermato”. Quest’idea che un assassino agisca perché “non viene fermato” sta diventando il leitmotiv di troppi thriller (e horror): cosa sarebbe, un tentativo di dare un senso a una trama raffazzonata? Oppure una implicita richiesta di aumentare la repressione per contrastare il crimine?

Vabbè. Ad ogni modo, visto che il film è ambientato in un ospedale americano, potete aspettarvi la solita tiritera sulle assicurazioni (la protagonista è una madre single buhuh che deve fare turni impossibili buhuh perché è cardiopatica ma non può pagarsi le cure buhuhuhu). Interessante che per il ruolo dell’assassino viscido e ambiguo sia stato scelto l’androgino Eddie Redmayne, noto per aver interpretato il “primo (o il secondo) trans della storia” nel lugubre The Danish Girl: uno di quei particolari che ti lascia sempre il dubbio se quelli dello star system “ci sono o ci fanno”.

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