Come abbiamo cominciato a mangiare funghi

Un argomento che mi affascina da sempre è il rapporto tra l’umanità e i funghi, forse l’alimento al contempo più innocuo e pericoloso fra tutti quelli che la nostra specie è in grado di consumare. Probabilmente avrei dovuto laurearmi in etnomicologia, ma prima di oggi non sapevo nemmeno esistesse la disciplina (grazie Google). E del resto penso che tale branca di studi, lungi da attrarre sinceri indagatori della verità, sia più approdo di giovani col cervello già bruciato che hanno sentito parlare di peyote in qualche film americano.

Potrei però sbagliarmi, ma non mi pare esistano ricerche serie, almeno a livello divulgativo, riguardanti le modalità con cui l’uomo abbia “scoperto” la tossicità di alcuni funghi rispetto ad altri. Si parla, naturalmente, di una questione talmente ancestrale da sfociare quasi immediatamente nel mito.

È tuttavia un’attestazione incontrovertibile che i funghi facciano parte della dieta umana almeno dal Paleolitico. Analisi al microscopio del tartaro dentario di cacciatori-raccoglitori magdaleniani spagnoli (ca. 15.000 anni fa) hanno infatti rivelato polveri vegetali e miceti — probabilmente boleti — indicativi di consumo di funghi selvatici.

Già nell’antichità classica si raccoglievano osservazioni sull’alimento. Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia li descrive come «una prelibatezza, ma servita con alto rischio», ricordando il famoso avvelenamento dell’imperatore Claudio dopo un banchetto. Il padre dell’enciclopedismo fornisce anche regole empiriche per riconoscere i funghi pericolosi: ad esempio afferma che alcuni velenosi «sono facili a riconoscersi dall’aspetto… rossi fuori e lividi dentro», e aggiunge che «i più sicuri hanno carne rossa» mentre «tutti i funghi velenosi sono di color livido». Plinio consiglia inoltre di cucinarli a lungo (bollendoli con sale, vino, nitro o aceto) e di mangiarli con pere o aceto per neutralizzarne il veleno.

Per quanto abbia potuto compulsare, purtroppo la ricerca storica sul consumo di funghi è inficiata dalla relativa facilità con cui l’alimento si degrada: questo però non ha impedito di osservare, per esempio, che anche il celebre Ötzi (la mummia di circa 5300 anni rinvenuta sul ghiacciaio del Similaun nelle Alpi Venoste) portasse con sé dei funghi, la cui presenza però non può escludere scopi medicinali o divinatori.

L’etnologia consente d’altronde di constatare come anche gli odierni cacciatori-raccoglitori usufruiscano senza problemi dei funghi sia a scopo alimentare che medicinale, come di rendersi conto che in molte comunità rurali del mondo “evoluto” si pratichi l’arte della “raccolta” rivolgendosi preferibilmente alla trasmissione orale che non a qualche dirozzamento specifico (ed è anche per questo che la competizione è molto intensa in aree dove il passaggio di informazioni è limitato a poche specie “chiave” facilmente riconoscibili).

La figura del raccoglitore è per l’appunto così consolidata nella cultura popolare da comparire in pitture, favole, tradizioni e leggende, e da far apparire la natura di tale “sapienza” quasi esclusivamente culturale: a influenzare la sicurezza della dieta fungina sarebbero di conseguenza soprattutto la memoria collettiva e l’insegnamento degli esperti locali, non tratti evoluti innati.

D’altra parte, la scienza attuale conferma che non esistono segni universali semplici di tossicità (il colore del cappello, così come l’odore o il sapore, non sono indicatori affidabili), per cui a un certo punto la prudenza ha avuto in parte fondamento empirico. È in effetti verosimile che le prime comunità umane abbiano imparato a distinguere i funghi per (talvolta tragici?) tentativi, come piccoli assaggi, osservazione degli effetti e trasmissione delle esperienze negative.

Si crede al contempo che l’osservazione del comportamento animale possa aver offerto qualche “indizio” (ad es. alcuni animali selvatici mangiano certe specie senza conseguenze letali), sebbene non esistano prove specifiche in proposito. Ed è qui che si inserisce la mia teoria, che penso si possa legittimamente definire schizo (perché ci potete infilare in qualche modo gli Elohims, se vi va).

In realtà, per mettere le mani avanti, la mia schizoteoria contempla due ipotesi: o l’alimentazione fungina deriva da una conoscenza primordiale che abbiamo perso, oppure essa è frutto di un “istinto” quasi infallibile che condividevano con le altre bestie un attimo prima che il processo di ominizzazione si stabilizzasse. Ad ogni modo, entrambe queste chiavi di lettura, all’apparenza opposte, indicano la trasmissione orale come una dinamica secondaria rispetto a qualcosa di originario o innato.

È noto che non solo il popolo più primitivo, come si è visto, sappia riconoscere prodotti velenosi sia vegetali che animali, ma che sia anche in grado di rendere innocuo ciò che prima era nocivo (come nel caso dell’ofiofagia). Per tornare all’argomento da cui sono partito, a mio parere all’alba della specie gli uomini erano in grado, servendosi solo dei propri sensi, di rendersi conto di quali funghi potessero cibarsi. Non penso sia mai esistita la figura caricaturale del cavernicolo che divora spregiudicatamente tutto ciò che trova sul suo cammino e poi cade a terra terrorizzando gli altri pseudo-scimmioni. L’inverosimiglianza di uno scenario di tal fatta è testimoniata, fra le altre cose, dall’ininterrotta presenza di tabù alimentari sin dalla notte dei tempi.

Sull’imitazione degli animali il discorso poi è controverso, perché a parte che molte specie evitano i funghi per repulsione sensoriale specifica (la quale talvolta riguarda appunto una capacità particolarissima di scongiurare qualsiasi tossicità), non si capisce poi perché non si potrebbe supporre un’intuizione sensoriale diretta del materiale commestibile (magari in seguito “atrofizzata”) in un bestione di vichiana memoria.

In questo senso, e il discorso potrebbe ovviamente valere per altri ambiti, la trasmissione orale non è l’inizio della conoscenza, ma un suo surrogato, un sistema per conservare ciò che si stava perdendo. La cultura nasce non per scoprire, ma per ricordare ciò che non si “sente” più: indi per cui, da tale prospettiva, tecniche culinarie, tabù ammonimenti potrebbe apparire come mere protesi culturali di una sensibilità ancestrale smarrita.

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