Quanti sono stati i cosiddetti “femminicidi” in Italia da inizio 2023? L’Ansa dice 47 ma subito ribassa a 39; RaiNews li riduce a 22, considerando “femmincidi” solo “donne uccise per mano del partner”; Sky conclude con 14. I dati si basano su un rapporto riguardante gli “omicidi volontari” del Dipartimento di pubblica sicurezza pubblicato sul portale del Ministero dell’Interno, che così afferma: «Relativamente al periodo 1 gennaio – 28 maggio 2023 sono stati registrati 129 omicidi, con 45 vittime donne, di cui 37 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 22 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner». Non si capisce da dove Sky abbia preso il numero 14, in ogni caso questa confusione è un sintomo della mancanza di una definizione chiara dell’espressione “femminicidio”.
Tale vaghezza conduce all’impossibilità di contrastare il fenomeno attraverso l’unico strumento di cui la società disporrebbe, cioè la legge. A tutto ciò che definiamo “femminicidio” non si può infatti conferire alcun fondamento giuridico, e pare che sia proprio su tale incertezza che riesca a prosperare l’apparato pseudo-femminista politico-mediatico fatto di centri antiviolenza, associazioni, giornali ecc…. Un “sistema” che propone progetti di “educazione”, “consapevolezza” e “sensibilizzazione” tanto inefficaci quanto esosi dal punto di vista della spesa pubblica: non a caso attualmente c’è grande fermento attorno alla spartizione dei fondi del cosiddetto PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), di cui una “fetta” cospicua (20 miliardi) dovrebbe andare proprio a foraggiare l’indeterminabile campo della “parità di genere”.
È innegabile che il ricorrente isterismo suscitato da qualsiasi tentativo di affrontare il tema in modo razionale sia un riflesso della nube di incertezza che lo avvolge (senza voler ipotizzare che questa sorta di “burocrazia femminista” abbia qualche interesse a “buttarla in caciara” per ottenere più finanziamenti). L’ultimo casus belli in ordine di tempo è stato innescato da un articolo de “La Stampa” del 1 giugno 2023 in cui una giornalista, commentando il caso di una ragazza uccisa dal suo fidanzato, affermava la necessità di “insegnare alle ragazze a salvarsi”, sostenendo che
«[serve] un’opera di educazione profonda nel Paese, a partire dalle scuole. […] Non si insegna alle ragazze quel che devono sapere fin dal primo giorno: al primo segno di violenza, prendi tutto e vai via. […] Mi dispiace dirlo con tanta nettezza, mi dispiace non dare alibi o seconde chance, mi dispiace non aver mai creduto alla passione che fa fare cose folli e che vuoi che sia se volano uno schiaffo o una spinta».
Non si capisce cose abbia scatenato l’ondata di indignazione sui social, se non forse un accenno alla responsabilità individuale delle donne nella scelta del partner, la quale viene comunque sempre pensata in una prospettiva “educativa”, intesa peraltro in una dimensione istituzionale (scuole, informazione, associazionismo) e mai familiare (anche perché l’espressione stessa “femminicidio” comporta un’implicita condanna della cosiddetta “famiglia tradizionale“, che perpetuerebbe la “cultura patriarcarcale” e gli stereotipi di genere).
Alla giornalista de “La Stampa” ha risposto indirettamente, ma in modo piuttosto piccato, una sua collega del “Corriere della Sera”, sostenendo che:
«La violenza è figlia di una cultura in cui siamo immersi e immerse ogni giorno. E se ora c’è chi invita a “insegnare alle donne a proteggersi”, anziché a “educare gli uomini a rispettare i diritti umani delle donne” -perché di questo si tratta: di diritti umani- è sempre per via della stessa cultura. Quella che sovra-responsabilizza le donne e giustifica gli uomini, quella che rinforza gli stereotipi anziché smontarli, quella che predica la “protezione” del genere femminile postulandone -implicitamente- l’inferiorità».
A dirla tutta, sembra sia proprio il concetto stesso di “femminicidio” a postulare la necessità di una protezione maggiore nei confronti del genere femminile: perché l’assassinio di “una donna in quanto donna” (questa la definizione di base, che rende di per sé impossibile, come si notava, inquadrare a livello legislativo il reato) dovrebbe non solo suscitare maggiore indignazione rispetto ad altri atti violenti, ma addirittura comportare pene più severe?
Per dire: nessuno parlerebbe mai di “maschicidio” anche nel caso in cui un uomo venisse effettivamente ucciso “in quanto uomo”; e se un africano fosse ammazzato per il colore della sua pelle, si accennerebbe eventualmente al “crimine d’odio” (altra dicitura contraddistinta da indeterminatezza assoluta), ma di certo mai a un nigricidio (ho pensato a un termine modellato sul latino, niente polemiche), seppure la legge consideri il razzismo un’aggravante.
Il paternalismo è dunque intrinseco all’impostazione che si è voluta dare al dibattito: il fatto stesso di proporre programmi di “rieducazione di massa” rivolti alla popolazione maschile è di per sé un modo per affermare la necessità di una “protezione” del genere femminile attraverso strumenti culturali. Se le donne sapessero “difendersi” da sé”, s’intende non da punto di vista fisico/materiale, allora escluderebbero in automatico i maschi violenti nonostante l’attrazione provata nei loro confronti. Eppure anche declinare tale banale constatazione in senso femminista (“rieducare le donne a liberarsi dagli stereotipi imposti da millenni di patriarcato”) genera una irrefrenabile indignazione.
La conclusione, come al solito, non può che essere affidata all’intelligenza artificiale: ChatGPT sostiene che il femminicidio sia “l’omicidio intenzionale di una donna basato sul suo genere”, ma rifiuta la definizione speculare di maschicidio perché “la maggior parte degli omicidi che coinvolgono gli uomini non sono perpetrati a causa del loro genere” (come del resto quelli che coinvolgono le donne). Alla domanda provocatoria se anche il filosofo francese Louis Althusser, marxista atipico ricordato quasi esclusivamente per aver strangolato la moglie Hélène Rytmann, possa essere considerato un “femminicida”, ChatGPT ha così ribattuto:
«È vero che Louis Althusser ha ucciso accidentalmente sua moglie, Hélène Rytmann Althusser, nel 1980. L’incidente è stato descritto come un episodio di follia durante il quale Althusser ha strangolato Hélène. È importante sottolineare che il caso di Althusser riguarda un omicidio specifico all’interno di una relazione di coppia e non può essere considerato un esempio di femminicidio intenzionale.
Il femminicidio si riferisce specificamente agli omicidi di donne motivati da discriminazione di genere, misoginia o violenza di genere. Mentre il caso di Althusser coinvolge una vittima di genere femminile, non ci sono prove che suggeriscano che l’omicidio fosse basato su motivazioni legate alla discriminazione di genere o alla violenza sistematica contro le donne.
È importante evitare la generalizzazione e considerare ogni caso individualmente, in base alle circostanze specifiche e alle motivazioni degli autori».
Perciò Althusser sarebbe da considerare un uxoricida non femminicida, in quanto “l’uxoricidio si riferisce specificamente all’omicidio di una moglie da parte del marito o dell’ex marito, ma non necessariamente è motivato da discriminazione di genere o violenza basata sul genere”. Ancora una volta ChatGPT dimostra un’intelligenza superiore a quella del giornalista medio: “È importante evitare la generalizzazione e considerare ogni caso individualmente, in base alle circostanze specifiche e alle motivazioni degli autori“.
Ogni “femminicidio” racconta una storia a sé stante, per la quale non possono valere accuse collettive basate su una “presunzione di colpevolezza” da parte del genere maschile, della cultura patriarcale, dell’Italia “bianca e cristiana” o di che altro. Se poi si volesse stabilire una responsabilità generale, allora si proceda in primis a chiarire in modo definitivo, neutrale, rigoroso e “tecnico”, cosa sia un femminicidio.
Il femminicidio è una stronzata, non c’è bisogno di fare articoli molto lunghi. Inoltre gli omicidi di donne causati dai partner, spesso dipendono dal fatto che gli uomini vengono letteralmente messi all’angolo dall’aguzzina in ogni modo, ben consapevoli che la legge è sempre dalla parte della donna. Uomini accusati falsamente di violenze sessuali, padri sbattuti fuori di casa (loro) come dei cani e costretti a pagare gli alimenti per figli che non vedranno più… che soluzione rimane? Beh tra vivere sotto un ponte e morire di fame, qualcuno può anche pensare che avere vitto e alloggio spese dei contribuenti in carcere non sia poi la soluzione peggiore. Ovviamente Avvocati, psicologi, assistenti di ogni tipo, giornalai (perché chiamarli giornalisti sarebbe eccessivo) etc. lucrano alla grande da queste situazione, che nessuno in effetti vuole risolvere.