La decisione di passare alle “maniere forti” e uccidere il generale Soleimani in maniera così plateale (e anche disonorevole) da parte dell’amministrazione Trump, appare una mossa tanto azzardata quanto quella che ha dato inizio a tutto, il conflitto in iraq nel 2003. Ma perché gli Stati Uniti hanno agito in tal modo? Ci sono almeno quattro ipotesi possibili.
La prima è che Washington voglia combattere una guerra non convenzionale. Nonostante l’Iran sia all’apparenza un nemico facile da abbattere (come Afghanistan e Iraq, già!), Teheran si è fatta le ossa nel “caos controllato” mediorientale, fomentato da otto anni di avventurismo neocon e da altri otto di “insostenibile leggerezza” obamiana. Il generale Soleimani aveva portato la sua tropa de elite a livelli di finezza strategica incomparabili nella regione: non solo dal punto di vista dell’hardware (nel 2015 fu lui a pianificare, al cospetto di Putin, l’entrata della Russia nello scenario siriano) ma anche da quello “immateriale”. Pensiamo alla creazione del fantasmagorico Syrian Electronic Army, da egli patrocinata, oppure al raffinamento nella scelta degli obiettivi, i cosiddetti soft targets: guerra cibernetica, attacchi a banche, infrastrutture, navi commerciali e impianti petroliferi. Gli Stati Uniti sembrano aver maturato la consapevolezza di non trovarsi più ai tempi di Stuxnet, e perciò cercano di tenere lo scontro a un livello di deterrenza, con tutta la rozzezza e faciloneria di cui sono capaci: la linea è quella della pression maximale, di impedire con tutti i mezzi “irregolari” colpi di mano persiani nelle loro residue enclavi militari in Iraq.
La seconda ipotesi è che Trump stia giocando lo stesso giochetto di Clinton per distogliere l’attenzione sull’impeachment: l’ipotesi era talmente ovvia che sembrava difficile non la proponesse qualche giornale, anche perché la politica americana è fatta di costanti che a volte mettono sconforto. Personalmente la trovo improbabile, sia perché Trump non verrà accusato di nulla, sia perché l’Iran non è (più) un attore secondario nel panorama internazionale e la sua potenza nonché le sue alleanze sono incomparabili rispetto a quelle di qualsiasi altro nemico degli Stati Uniti in Medio Oriente.
La terza ipotesi è che Trump sia stato colto alla sprovvista dai falchi della sua amministrazione: come insinua sibillino che il New York Times, è incerto “se sia stata davvero una decisione del Presidente o se invece Soleimani si trovasse al posto sbagliato nel momento sbagliato”. La stampa scherza sul fatto che la notizia gli sia arrivata mentre si gustava un gelatino nella sua magione di Mar-a-Lago e che si sia precipitato su Twitter a postare la bandiera americana.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) January 3, 2020
In effetti questo attacco rappresenta una palla al piede per la prossima campagna elettorale non più all’insegna del MAGA (Make America Great Again) ma del KAG (Keep America Great), che già non suona bene. Come sostiene ancora il NY Times, “Trump rimarrà anche lui impantanato nella regione per il resto del suo mandato, duri essi ancora un anno oppure altri cinque”. La cosa che più insospettisce, nell’ambito di tale ipotesi, è che un uomo accorto e intelligente come Soleimani si sia fatto cogliere alla sprovvista: il fatto che facesse avanti e indietro da Baghdad senza troppe precauzioni sembra indice di una qualche garanzia di “immunità” segretissima e informale da parte delle alte sfere americane. Cioè, è possibile che qualche emissario di Trump abbia rassicurato Soleimani sulla sua incolumità e poi sia intervenuto il solito Deep State a pugnalare alle spalle sia lui che, indirettamente, Trump?
Forse sono favole che ci raccontiamo, forse è solo così che devono andare le cose. Esiste un certo grado di “necessità” negli eventi che si susseguono: la strategia del caos statunitense ha avuto conseguenze impreviste, raffinando le capacità di un avversario che vent’anni fa si sarebbe potuto uccidere in culla. Se però vogliamo adottare una prospettiva la più cinica e “realista” fino in fondo, allora dobbiamo avanzare in cauda venenum la quarta ipotesi: il generale Soleimani era diventato un personaggio scomodo e dunque la sua testa è stata messa su un vassoio d’argento con il tacito consenso di tutti. In primo luogo dell’attuale establishment iraniano, che rischiava di essere sbaragliato nelle elezioni dell’anno prossimo da una candidatura dell’eroe di guerra; poi degli altri protagonisti regionali (Russia, Cina Turchia, Arabia Saudita), impensieriti dal nuovo corso dell’imperialismo persiano e timorosi di nuovi torbidi nei rispettivi “cortili di casa”.
Lo so, l’ipotesi è troppo azzardata e anche perfida, ma non si spiegherebbe altrimenti la “tranquillità” con cui Soleimani abbia fatto la fine del topo. La politica è sporca, ma forse la geopolitica lo è anche di più.