Osservando retrospettivamente gli ultimi rivolgimenti della stagione politica, si evince come il vero “peccato mortale” di Matteo Renzi, a fronte alle decine di “peccati veniali” che hanno colpito solo i cittadini italiani, sia stato quello di aver messo in discussione il principio dell’indipendenza di una banca centrale.
I motivi della mozione di sfiducia dello scorso ottobre contro il governatore uscente di Bankitalia Ignazio Visco erano, ovviamente, tutt’altro che eroici: si trattava di una mossa opportunistica volta a garantirsi nell’imminente campagna elettorale un capro espiatorio per il tracollo del sistema bancario a cui aveva portato il malgoverno piddino.
Tale era lo “stile” a cui il Paese si stava abituando: non solo quindi trovarsi alle prese con catastrofi “materiali”, come appunto quella bancaria, ma anche “spirituali”, cioè culturali e perfino linguistiche, nell’anglicizzazione stracciona del gergo politico. È inutile però rivangare: riconosciamo a Renzi, nella sua “bestialità” (in senso vichiano, absit iniuria verbis), di aver contravvenuto a uno dei dogmi del pensiero unico contemporaneo, come peraltro ha indirettamente dimostrato la reazione isterica di buona parte dell’estabilishment politico e mediatico.
Si è parlato addirittura di “atto eversivo”, ponendo l’anatema su chiunque avesse colto l’occasione per discutere la gestione tutt’altro che eccellente del sistema da parte del governatore di Bankitalia. Certo, anche il buon Visco ebbe gioco facile nel ricordare che «nella sua azione l’Istituto ha agito in continuo contatto col Governo», ma obiettivamente il calcolo tutto politico di darlo in pasto ai risparmiatori saccheggiati per coprire il proprio fallimento non pareva del tutto cambiato in aria: probabilmente Renzi, nella sua infinita naïveté (che sfiora il patologico, come talvolta si evince lombrosianamente dalle sue espressioni facciali) non credeva che la fatidica Indipendenza della Banca Centrale fosse una cosa seria.
In pochi mesi si erano infatti potute cancellare conquiste di decenni, massacrando al contempo la democrazia e il welfare: sembrava che il paradigma della “liquidità” funzionasse alla perfezione per riportare il popolaccio «a contatto diretto con la durezza del vivere». Tuttavia, nella sua furia distruttrice il leader del Pd non aveva considerato la natura di “articolo di fede” di quello che all’apparenza assomigliava al solito vezzo, l’ennesimo flatus vocis su cui si fonda questa immaginaria “Europa”.
Senza dilungarci troppo sui motivi per cui tale “Europa” è intenzionata a difendere con le unghie e con i denti un principio fallimentare, con giustificazioni ridicole e anacronistiche, da talk show di seconda serata di una rete regionale («L’inflazione degli anni 70 ci ha insegnato il costo di una politica monetaria troppo prona ai voleri dell’esecutivo»), possiamo però evidenziare uno dei paradossi più evidenti della surreale deriva: il fatto che nel milieu anglosassone da cui il dogma ultra-liberista muove si sia almeno provveduto a bilanciarlo con politiche volte alla piena occupazione e alla crescita.
Solo nel monstrum politico-ideologico-giuridico che chiamiamo “Unione Europea” lo si è abbracciato con una ferocia e uno zelo da guerra santa, portando alla realizzazione di uno dei sistemi più ingessati e inconcludenti che l’umanità recente abbia conosciuto. La riduzione di qualsiasi politica monetaria al controllo dell’inflazione è diventato il nostro “destino manifesto”: cancellate le ultime briciole di common sense, che in fondo risiedeva tutto nella capacità dei politici (per quanto “corrotti” e “spendaccioni”) di mediare tra interessi contrapposti, non rimane che la finta neutralità della “tecnica” a estendere la pretesa Indipendenza a piani ulteriori rispetto a quello economico.
Abbiamo invero scoperto, sempre durante il bailamme della “questione banche”, che lo statuto della Bce rivendica per i propri rappresentanti privilegi da Ancien Régime: lo si è appresso icasticamente quando la richiesta d’audizione in Commissione di Mario Draghi è stata respinta con paterna benevolenza dalla Banca Centrale, che si è persino risparmiata di snocciolare le numerose “indipendenze” di cui gode (istituzionale, personale, funzionale, operativa, finanziaria, organizzativa e giuridica).
La tutela del “bene preziosissimo” (cit.) dell’Indipendenza detiene evidentemente un valore superiore rispetto a quello della banale democrazia, che oramai appare come un’accidente della storia, una stortura a cui porre rimedio. Nel caso particolare, “europeo” (chi si aspettava che il termine sarebbe divenuto così nefasto alle nostre orecchie!), la “foglia di fico” dell’efficienza, della competizione e del libero mercato tuttora non basta a occultare la profonda insensatezza che contraddistingue l’applicazione del Sacro Principio rispetto ad altri contesti.
Il problema di fondo, a ben vedere, è che nel progetto dell’Unione la necessità di tenere assieme Stati che hanno davvero poco da condividere travolge ogni argine imposto da una scienza, seppur triste, qual è l’economia. Per dirla nel modo più schietto possibile: la pretesa di “moralizzare” la politica impedendo ai rappresentanti democratici di “stampare moneta” (=sostenere i settori in crisi, creare posti di lavoro, non far morire i cittadini di fame) ha come condizione di possibilità l’immoralissimo (e antistorico e distopico) “ideale” di creare un Super-stato diviso fra tecnocrazia e romanticismo, demenziale punto d’incontro tra il barone Novalis e il baronetto von Hayek.
Forse è questo il motivo di tanta irragionevolezza: la mancanza di alcun terreno di mediazione, a parte talune fantasie tanto malate quanto inconfessabili. Per ritornare sulla terra, possiamo ricordare che la catastrofe del sistema italiano è una conseguenza dell’adozione anticipata del famigerato bail-in, secondo pilastro dell’altrettanta famigerata Unione Bancaria (il primo sarebbe il meccanismo di vigilanza unico) usata dalla Germania come specchietto delle allodole per procrastinare indefinitamente la necessaria “condivisione delle perdite” (che dovrebbe essere il terzo pilastro, se non venisse puntualmente abbattuto). La sensibilità di Berlino nei confronti dei “sogni” tecnocratici nella misura in cui può strumentalizzarli a proprio favore o imporli alle altre nazioni, è un altro degli elementi che offre la dimensione della follia di cui è in preda il Vecchio Continente.
Per concludere, verrà il momento in cui sarà imprescindibile offrire delle reali ragioni politiche (e non goffe manovre elettorali) allo smantellamento di un assioma che è sempre stato politico e mai economico. Non sappiamo se la mossa di Renzi, col senno di poi, risulterà utile allo scopo, se non addirittura “pionieristica”: in ogni caso è sicuro che costui non potrà far parte dello scenario in cui dovrà essere portata a termine.