L’altro giorno, durante un’inutile manifestazione femminista a Milano, qualche “lesbicona putrescente in salamoia” (cit.) ha pensato bene di imbrattare con della vernice rosa la statua di Indro Montanelli eretta negli storici giardini pubblici ribattezzati col suo nome. Come pretesto per il gesto vandalico è stata presa una intervista del 1982 nel quale il giornalista raccontava di quando “comprò” una moglie in Abissinia durante l’avventura coloniale fascista. La scultura è stata tempestivamente ripulita dagli addetti comunali (tutti uomini, chiaramente, perché le femministe non sanno nemmeno lavare un piatto).
La vicenda può essere letta a vari livelli. Partiamo da quello basilare, l’opera in sé: essa risale al periodo della “corrierizzazione” della figura di Montanelli, una “promozione” ottenuta grazie all’anti-berlusconismo senile che lo aveva fatto passare da paria a “Venerato Maestro”. Senza quella fase, ai giardini di Porta Venezia non sarebbe mai stato dato il suo nome, né tanto meno vi avrebbero piazzato una sua statua (e al Nostro non sarebbe dispiaciuto, visto che a suo parere i monumenti servivano solo come deposito dello sterco dei piccioni). Tale particolare spiega anche perché la scultura ha resistito così a lungo senza che nessuno si azzardasse a toccarla: finché la sua memoria era ancora spendibile contro il povero Silvio, Indro rimaneva un patrimonio nazionale (nel frattempo anche il Cavaliere è scomparso dalle scene, forse pure lui in attesa di una riabilitazione tardiva nelle vesti di picconatore del governo giallo-verde).
Ora che tuttavia Montanelli è tornato a essere il “solito stronzo” (sempre per seguire la catalogazione berselliana), ci si domanda se non sarebbe stato meglio andare a ripescare del materiale più interessante per infangarlo. In fondo, alle numerose agiografie a egli dedicate corrisponde un’ampia bibliografia che lo ritrae come millantatore e opportunista (da La memoria perduta di Luigi de Anna a Passaggio in Svizzera di Renata Broggini): notiamo, en passant, che negli anni dello sdoganamento montanelliano quasi tutti i suoi critici, dal punto di vista editoriale, passarono “a destra” (e la stessa intervista “incriminata” fu probabilmente riesumata da qualcuno con simpatie poco sinistrorse).
In ogni caso, è stato scelto di tirar fuori dal cassetto una vicenda che francamente puzza un po’ troppo di gender studies, cioè di americanata: in effetti a preoccupare non sono le femministe in se (che fanno ridere e basta), ma l’idea che anche noi saremo costretti a fare i “conti con la storia” solo dalla prospettiva di una lesbica in sovrappeso coi capelli tinti di viola, verde e azzurro. Leggere il passato attraverso le categorie di “machismo”, “omofobia” o “transofobia” è pericolosissimo, perché almeno fino agli anni ’00 del XXI secolo il “più pulito c’ha la rogna”: intendo che chiunque una volta nella vita è stato -fobico, e che un giorno anche gli avanguardisti di oggi saranno i “soliti stronzi” di domani.
Il primo esempio che mi viene in mente è Pablo Neruda, ancora più compromettente perché comunista e poeta (non “fascista e pedofilo” come Montanelli!): nel novembre scorso le femministe cilene hanno cercato di bloccare l’intitolazione di un aeroporto di Santiago alla sua memoria perché nella sua autobiografia aveva raccontato di uno stupro consumato ai danni di una cameriera cingalese (ai tempi in cui era ambasciatore in Sri Lanka); una “artista” gli ha persino dedicato un ritratto con una merda in testa e la scritta “maschilista progressista” (ciò ci fa sospettare che le femministe di tutto il mondo condividano un unico cervello, dal quoziente intellettivo piuttosto basso).
Questo solo per rimarcare l’episodio più recente, perché in realtà i casi sono innumerevoli: restando però in tema di paradosso, dimenticavo di ricordare che anche l’Elvira Banotti (1933–2014), l’attivista che contestò Montanelli “in diretta” e che per un paio di giorni è tornata a essere “paladina” di non so che, già da anni era finita nella lista nera per aver difeso Berlusconi, accusato Vendola di oscurantismo e la comunità gay di intolleranza in un surreale articolo pubblicato su “Il Foglio” (cosa che gli consente ora di esser citata positivamente persino dai siti cattolici).
Capite dunque che non se viene a capo: il politicamente corretto svilisce il dibattito e garantisce solo una “mutua distruzione assicurata”. Peraltro abbiamo evidenziato i paradossi politici delle imbrattatrici, senza soffermarci, per buon gusto, su quelli morali: con che faccia, infatti, una “sinistra” che da tempo sta spingendo per trasformare i pedofili nell’ennesima “minoranza discriminata” (qui l’ultimo esempio, di una settimana fa), può ancora permettersi di dire una sola parola sulla sessualità altrui? A meno che non abbiamo in mente di inventarsi la figura del “pedofilo colonizzatore” da contrapporre a quella del “pedofilo riflessivo”, una bella pensata che fa già capolino nei loro ridicoli appelli al Love is Love: quello qui sotto è di Potere al Popolo, una delle organizzazioni che ha rivendicato la bravata antimontelliana, ma che a San Valentino è incappata in una trollata degna di 4chan e affini, postando un appello all’amore “senza età” (probabilmente gli illuminati gestori della pagina e del partito hanno visto un arcobaleno e non hanno capito più nulla – ulteriore conferma della teoria del “cervello condiviso”).
Arriva #SanValentino…ma certe cose valgono sempre ❤️ pic.twitter.com/G3iJECfv8J
— Potere al Popolo (@potere_alpopolo) February 14, 2019
Insomma, per tutto ‘sto polverone ci tocca difendere, se non rimpiangere, persino uno come Indro Montanelli: non sarà il Generale Lee, ma se la sua figura riesce a resistere a decenni di musealizzazione indotta (come si ricordava in un convegno, «la sinistra cominciò dalla fine degli anni ’80 a “monumentalizzare” Montanelli per neutralizzarlo»), allora forse non è stato poi così “malvagio”.