Ho pubblicato a puntate il “promemoria” di Off Guardian (22 settembre 2021) su tutti i punti che non tornano riguardo alla pandemia. Qui di seguito un riepilogo con i collegamenti ai singoli articoli (che contengono ulteriori approfondimenti).
Il tasso di sopravvivenza al covid è superiore al 99%
La stragrande maggioranza degli esseri umani non corre alcun rischio prendendosi questo coronavirus. Quasi tutti gli studi sul rapporto infezione-mortalità hanno dato risultati tra lo 0,04% e lo 0,68%: ciò significa che il tasso di sopravvivenza al covid è almeno del 99,3%.
Non c’è stato alcun aumento insolito della mortalità
Le varie testate nazionali hanno definito il 2020 “l’anno con più morti dalla Seconda guerra mondiale” a seconda del Paese (dall’Italia all’Inghilterra), ma a questa conclusione si è giunti manipolando i dati, ignorando il massiccio aumento della popolazione da allora, nonché il cosiddetto tasso di mortalità standardizzato per età. Di seguito l’esempio del Regno Unito:
Secondo questi parametri (scientifici), il 2020 non è nemmeno l’anno peggiore per mortalità dal 2000: infatti dal 1943 solo 9 anni sono stati migliori del 2020. Allo stesso modo, negli Stati Uniti il tasso di mortalità standardizzato per età per il 2020 è solo ai livelli del 2004:
Le cifre dei “morti per covid” sono gonfiate
I Paesi di tutto il mondo hanno definito un “decesso per covid” come “morte per qualsiasi causa entro 30 o 60 giorni da un test positivo”. Le autorità sanitarie di varie nazioni come Italia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Irlanda del Nord hanno ammesso questa pratica. La distinzione tra morire di covid e morire di altro dopo essere risultati positivi al covid ha portato a un conteggio eccessivo. Il patologo britannico John Lee aveva segnalato questa “sopravvalutazione” già la scorsa primavera. Considerando l’enorme percentuale di infezioni da covid “asintomatiche”, la ben nota prevalenza di gravi comorbilità e la possibilità di test falsi positivi, ciò rende i numeri dei decessi per covid scientificamente inaffidabili.
La maggioranza dei morti per covid
presentava gravi comorbilità
Nel marzo 2020 le statistiche ufficiali del governo italiano attestavano che il 99,2% dei “deceduti per covid” soffriva almeno di una grave comorbilità (cancro, malattie cardiache, demenza, Alzheimer, insufficienza renale e diabete). Oltre il 50% dei deceduti aveva tre o più gravi patologie preesistenti. L’esclusione a priori delle comorbilità come causa di decesso è poi diventata norma: l’Istituto Nazionale di Statistica britannico ha rivelato nell’ottobre 2020 che meno del 10% dei “morti per covid” erano deceduti per un’unica causa di morte.
L’età media dei “morti per covid” è superiore
all’aspettativa di vita media
L’età media di un “morto per covid” nel Regno Unito è di 82,5 anni, in Italia 86; in Germania 83; in Svizzera 86; in Canada 86; negli Stati Uniti 78; in Australia 82. In quasi tutti i casi l’età media di un “morto per covid” è superiore all’aspettativa di vita nazionale. Pertanto nella maggior parte del mondo la “pandemia” ha avuto un impatto minimo o nullo sull’aspettativa di vita.
La mortalità da covid rispecchia
la curva della mortalità naturale
Studi statistici del Regno Unito e dell’India hanno dimostrato che la curva per la “morte per covid” segue quasi esattamente la normale curva dei decessi:
I lockdown non impediscono la diffusione dei contagi
Non ci sono prove che i lockdown abbiano avuto alcun impatto sulla limitazione delle “morti per covid”. Anche il confronto tra Paesi (o tra regioni e Stati all’interno degli stessi, come la California e la Florida) smentisce l’idea che le quarantene di massa servano a qualcosa: l’esempio ormai classico è quello della Svezia, con un tasso di mortalità dell’1,3%, inferiore a quello della maggior parte dell’Europa.
I lockdown uccidono
Ci sono prove che le conseguenze dei lockdown a livello sociale, economico e anche di sanità pubblica sono più letali di quelle del covid. Il dottor David Nabarro, inviato speciale dell’Organizzazione mondiale della sanità per Covid-19, nell’ottobre 2020 ha definito i lockdown una “catastrofe globale”:
“L’Organizzazione Mondiale della Sanità non sostiene i lockdown come mezzo principale di contenimento del virus […]. Essi potrebbe causare un raddoppio della povertà mondiale e della malnutrizione infantile. […] Questa è una terribile e spaventosa catastrofe globale”.
Un rapporto delle Nazioni Unite dell’aprile 2020 ha calcolato che l’impatto economico dei lockdown potrebbe aver fatto morire 100.000 bambini nel mondo e che altre decine di milioni dovranno sopportare nuove carestie. In aggiunta disoccupazione, povertà, suicidio, alcolismo, tossicodipendenza e altre crisi socio-sanitarie stanno aumentando per l’intero pianeta. Mentre gli interventi chirurgici saltati o rinviati causeranno un aumento della mortalità per malattie cardiache o cancro.
Gli ospedali non sono mai stati “al collasso”
durante la pandemia
L’argomento principale a sostegno dei lockdown è che “appiattire la curva” impedirebbe un rapido afflusso di casi e proteggerebbe i sistemi sanitari dal collasso. La maggior parte dei sistemi sanitari non però è mai stata vicina al “collasso” neanche nei mesi più caldi della pandemia. Nel marzo 2020 si è sparsa la voce che gli ospedali in Spagna e in Italia stessero esplodendo, fenomeno che in realtà si verifica ad ogni stagione influenzale. Nel 2017 gli ospedali spagnoli avevano una capacità del 200% e nel 2015 i malati dormivano nei corridoi.
Uno studio del Journal of the American Medical Association del marzo 2020 ha inoltre rilevato che gli ospedali italiani “solitamente funzionano all’85-90% della loro capacità durante i mesi invernali”.
Ospedali al collasso, interventi cancellati, picco di morti (Italia 2012-2019)
Nel Regno Unito, il sistema sanitario nazionale finisce regolarmente “al collasso” durante l’inverno: come parte delle politiche covid c’è stata inoltre una riduzione della capienza massima degli ospedali, che però non ha prodotto pressioni particolari.
Non è un caso, infine, che nei Paesi occidentali siano stati spesi milioni per costruire ospedali temporanei di emergenza che poi non sono mai stati utilizzati.
I tamponi non diagnosticano malattie
Il test della reazione a catena della polimerasi trascrittasi inversa (RT-PCR), il cosiddetto “tampone molecolare”, viene presentato dai media come la pietra filosofale della diagnostica riguardo al covid. Tuttavia, l’inventore di tale processo, Kary Mullis (Premio Nobel per la chimica nel 1993), ha affermato esplicitamente che il “processo” non era stato in alcun modo pensato come strumento diagnostico: “Il tampone molecolare è solo un processo che permette di fare qualcosa con qualcosa. Non vi dice se siete malati, o se la cosa che vi è stata diagnosticata potrebbe nuocervi o cose così”.
I test sono inaffidabili
È noto che i tamponi producono molti falsi positivi, reagendo a materiale genetico non specificamente correlato al Sars-Cov-2. Uno studio cinese ha scoperto che su uno stesso paziente il test potrebbe dare due risultati diversi nello stesso giorno. In Germania i test hanno reagito ai comuni virus del raffreddore. Uno studio del 2006 ha rilevato che i test molecolari per un virus segnalano positività anche ad altri virus. Nel 2007 uno screening con tamponi molecolari ha identificato un “focolaio” di pertosse in realtà mai esistito. Alcuni test negli Stati Uniti hanno persino reagito al campione di controllo negativo.
Il defunto presidente della Tanzania, John Magufuli, ha usato i tamponi molecolari su capre, papaye e olio per motori, ottenendo tutti risultati positivi.
Già nel febbraio del 2020 gli esperti ammettevano che il test è inaffidabile. Il dottor Wang Cheng, presidente dell’Accademia Cinese delle Scienze Mediche, ha dichiarato alla televisione di stato cinese: “L’accuratezza dei test è solo del 30-50%”. Il sito ufficiale del governo australiano ha affermato che “esistono prove insufficienti dell’accuratezza e dell’utilità diagnostica dei test COVID-19 disponibili”. E un tribunale portoghese ha stabilito che i tamponi molecolari sono “inaffidabili” e non dovrebbero essere usati per la diagnosi.
I cicli dei tamponi sono troppi
I test vengono eseguiti in cicli, e il numero di cicli utilizzati per ottenere il risultato è noto come “soglia di ciclo”. Il succitato Kary Mullis ha sostenuto che “se si devono fare più di 40 cicli, c’è qualcosa di sbagliato nel test”. I protocolli internazionali affermano che “valori di soglia di ciclo a 40 sono sospetti a causa della bassa efficienza implicita e generalmente non dovrebbero essere riportati”; lo stesso Anthony Fauci, il superconsulente americano, ha ammesso che oltre i 35 cicli non c’è più nulla di analizzabile.
La dottoressa Juliet Morrison, virologa dell’Università della California, ha dichiarato al New York Times: “Qualsiasi test con una soglia del ciclo superiore a 35 è troppo sensibile. È incredibile che si possa pensare che 40 cicli riescano a dare un esito attendibile. La soglia più ragionevole sarebbe da 30 a 35”.
I dati delle autorità sanitarie americane suggeriscono che nessun campione oltre i 33 cicli possa essere coltivato e il Robert Koch Institute tedesco afferma che oltre i 30 cicli è improbabile ci sia qualcosa di infettivo. Nonostante ciò, è noto che quasi tutti i laboratori negli Stati Uniti eseguono i test almeno a 37 cicli e talvolta fino a 45. La “procedura standard” del servizio sanitario nazionale britannico fissa il limite a 40 cicli. Non è dato sapere il numero dei cicli utilizzato in Italia, ma anche qui sembra si vada da 41 a 45.
I tamponi danno troppi falsi positivi
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ammonito più volte sull’eventualità che i tamponi diano falsi positivi. Nel dicembre 2020 l’OMS ha pubblicato una nota informativa per invitare i laboratori a diffidare di valori di ciclo elevati: “Quando i campioni sono stati sottoposti a molti cicli, la distinzione tra rumore di fondo e presenza effettiva del virus bersaglio è difficile da accertare”.
Nel gennaio 2021 l’OMS ha pubblicato un’altra nota per segnalare che i positivi “asintomatici” dovrebbero essere riesaminati in quanto probabili falsi positivi: “Laddove i risultati del test non corrispondano al quadro clinico, è necessario prelevare un nuovo campione e procedere a un altro test”.
L’affidabilità dei tamponi è incerta
Il genoma del virus Sars-Cov-2 sarebbe stato sequenziato da scienziati cinesi nel dicembre 2019, quindi resto noto il 10 gennaio 2020. Meno di due settimane dopo, i virologi tedeschi (Christian Drosten et al.) avrebbero usato questo genoma per creare campioni da testare. Il loro studio, Detection of 2019 novel coronavirus (2019-nCoV) by real-time RT-PCR, è stato presentato per la pubblicazione il 21 gennaio 2020 e poi accettato il 22 gennaio. Ciò significa che il documento è stato presumibilmente “revisionato da pari” in meno di 24 ore, quando in genere il processo richiede settimane.
Oltre quaranta scienziati hanno firmato una petizione per il ritiro dello studio, stilando un dettagliato elenco dei dieci principali errori nella metodologia di Drosten, e hanno richiesto il rapporto sulla revisione paritaria della rivista, a testimonianza che il paper abbia effettivamente superato il percorso di approvazione. I test di Corman-Drosten sono alla base di ogni tampone: ma se la validità del loro studio è in discussione, allora anche quella di ogni tampone dovrebbe esserlo.
La maggior parte dei contagi da covid sono “asintomatici”
Già da marzo 2020 studi condotti in Italia suggerivano che il 50-75% dei testati positivi non presentava sintomi. Un altro studio del Regno Unito dell’agosto 2020 ha rilevato che fino all’86% dei “malati di covid” non ha manifestato alcun sintomo virale. È perciò letteralmente impossibile distinguere tra un “caso asintomatico” e un falso positivo.
Esistono poche prove a sostegno
della “trasmissione asintomatica”
Nel giugno 2020 Maria Van Kerkhove, capo dell’unità Malattie emergenti e zoonosi dell’OMS, ha dichiarato che “dai dati in nostro possesso è raro che una persona asintomatica possa effettivamente trasmettere la malattia a un altro individuo”.
Uno studio pubblicato dal Journal of the American Medical Association nel dicembre 2020 ha rilevato che i portatori asintomatici hanno una probabilità inferiore all’1% di infettare le persone all’interno delle proprie famiglie.
Un altro studio del 2009, condotto sull’influenza, concludeva che “prove limitate conferiscono importanza alla trasmissione asintomatica. Il ruolo degli individui infetti da influenza asintomatici o presintomatici nella trasmissione della malattia potrebbe essere sopravvalutato”.
Considerando anche l’inaffidabilità dei test, è possibile che molti “asintomatici” siano falsi positivi.
La ventilazione non è una terapia per virus respiratori
La ventilazione meccanica non è, e non è mai stata, una terapia raccomandato per curare le infezioni respiratorie di alcun tipo. Nei primi giorni della pandemia molti medici hanno messo in discussione l’uso dei ventilatori per curare il covid. Per esempio, il dott. Matt Strauss (professore di medicina della Queen’s University) dichiarò nell’aprile 2020 che “i ventilatori non curano alcunché, possono solo riempire i polmoni di aria a chi non è in grado di farlo autonomamente. Nel pensare comune sono ormai associati alle malattie polmonari, ma questa non è in realtà la loro applicazione più comune o appropriata”.
Il pneumologo tedesco Thomas Voshaar aveva invece dichiarato alla Faz: “Quando abbiamo ricevuto i primi studi e bollettini dalla Cina e dall’Italia, ci siamo subito chiesti perché l’intubazione fosse usata in modo così massiccio. Ciò contraddiceva tutta la nostra esperienza clinica riguardo la polmonite virale”.
Nonostante ciò le più importanti autorità sanitarie internazionali (dall’OMS al CDC, dall’ECDC al NHS) hanno raccomandato l’uso della ventilazione: protocollo adottato peraltro non allo scopo di curare i pazienti, ma per ridurre l’ipotetica diffusione del covid impedendo l’emissione di goccioline (droplets).
La ventilazione può uccidere
Sottoporre a ventilazione meccanica chi soffre di influenza, polmonite, malattia polmonare ostruttiva cronica o qualsiasi altra patologia che limita la respirazione o colpisce i polmoni, non può alleviare alcun sintomo; al contrario, può far peggiorare il quadro clinico se non portare alla morte del paziente.
I tubi per intubazione sono per giunta una fonte di potenziale infezione nota come “polmonite associata al ventilatore”, che secondo gli studi colpisce fino al 28% di tutte le persone sottoposte a ventilazione e ne uccide indirettamente dal 20% al 55%.
La ventilazione meccanica è anche dannosa per la struttura fisica dei polmoni, con conseguente “danno polmonare indotto dal ventilatore”, che può avere un impatto drammatico sulla qualità della vita e persino provocare la morte.
Gli esperti stimano che il 40-50% dei pazienti sottoposti a ventilazione muoia, indipendentemente dalla loro malattia. In tutto il mondo, sono morti tra il 66% e l’86% di “malati covid” sottoposti a ventilazione.
Le mascherine non fermano i contagi
Oltre una decina di studi scientifici hanno dimostrato che le mascherine non servono a fermare la diffusione dei virus respiratori (per una bibliografia completa e aggiornata, cfr. Swiss Policy Research). Un’analisi pubblicata dal CDC (massima autorità sanitaria americana) nel maggio 2020 ha rilevato “nessuna riduzione significativa della trasmissione dell’influenza con l’uso di mascherine facciali”. Un altro studio su oltre 8000 soggetti è giunto alla conclusione che le mascherine “non sembrano essere efficaci contro le infezioni respiratorie virali confermate in laboratorio né contro le infezioni respiratorie con manifestazioni cliniche”.
Gli studi che affermano di dimostrare la necessità di indossare le mascherine sono stati pesantemente contestati: uno di questi si basava su segnalazioni auto-riportate spacciate per dati di laboratorio; un altro è stato condotto in maniera così improvvisata che un gruppo di esperti ne ha chiesto il ritiro; un terzo è stato effettivamente ritirato dopo che le sue previsioni sull’efficacia delle mascherine si sono rivelate del tutto errate.
L’OMS ha commissionato la propria analisi su Lancet, ma quello studio ha esaminato solo le maschere N95 e solo negli ospedali.
A parte gli studi, ci sono le statistiche a dimostrare che le mascherine non fermano il contagio. Per esempio, due stati americani molto simili, North e South Dakota, hanno avuto un numero di casi pressoché identici, sebbene uno abbia imposto l’obbligo di mascherina e l’altro no.
Nel Kansas, le contee senza obbligo di mascherina hanno avuto meno casi di covid rispetto a quelle che l’hanno imposta. E nonostante le mascherine siano utilizzate da sempre in Giappone e facciano parte dell’esistenza quotidiana della popolazione, nel 2019 la nazione nipponica ha sofferto comunque dell’epidemia di influenza peggiore degli ultimi decenni.
Le mascherine nuocciono alla salute
Indossare una mascherina per lunghi periodi, indossare sempre la stessa più di una volta e altri aspetti delle mascherine di stoffa possono avere effetti dannosi sulla salute dei singoli. Un importante studio sugli effetti dannosi dell’uso della mascherina è stato recentemente pubblicato dall’International Journal of Environmental Research and Public Health.
È noto inoltre che le maschere contengono microfibre di plastica, le quali se inalate possono danneggiare i polmoni ed essere potenzialmente cancerogene. I bambini che indossano maschere sono per giunta obbligati alla respirazione orale, che si traduce in deformità facciali di diversa entità.
Si segnalano in tutto il mondo casi di individui sani svenuti a causa di avvelenamento da CO2 mentre indossavano le mascherine e di alcuni bambini cinesi che hanno persino avuto un arresto cardiaco improvviso a causa di esse.
Le mascherine inquinano
Miliardi di mascherine usa e getta sono state utilizzate durante la pandemia, e chissà per quanto saranno ancora obbligatorie. Un rapporto delle Nazioni Unite segnala che tutto questo provocherà un raddoppio dei rifiuti di plastica nei prossimi anni, e la stragrande maggioranza di questi saranno composti da mascherine, le quali, assieme ad altri rifiuti ospedalieri, ostruiranno i sistemi fognari e di irrigazione, con effetti a catena sulla salute pubblica, sull’irrigazione e sull’agricoltura. Uno studio dell’Università di Swansea ha anche scoperto che “le mascherine immerse nell’acqua rilasciano metalli pesanti e fibre di plastica tossici sia per le persone che per la fauna selvatica“.
I vaccini anti-covid usano
una tecnologia mai sperimentata
Prima del 2020 non era mai stato sviluppato alcun vaccino efficace contro un coronavirus umano. Da allora ne sono stati presumibilmente realizzati 20 in 18 mesi.
Gli scienziati hanno cercato per anni di sviluppare un vaccino contro SARS e MERS con poco successo. Alcuni dei tentativi di vaccini SARS hanno causato ipersensibilità al virus stesso: i topi vaccinati avrebbero potuto potenzialmente contrarre la malattia in modo più grave rispetto ai topi non vaccinati. Un altro tentativo ha causato danni al fegato nei furetti.
Il punto fondamentale è però che i vaccini “tradizionali” funzionano esponendo il corpo a un ceppo indebolito del microrganismo responsabile della malattia, mentre questi nuovi “vaccini” anti-covid sono vaccini mRNA. I vaccini mRNA (acido ribonucleico messaggero) funzionano iniettando mRNA virale nel corpo, che si replica all’interno delle cellule e incoraggia il corpo a riconoscere e produrre antigeni per le “proteine spike” del virus. Sono stati oggetto di ricerca dagli anni ’90, ma prima del 2020 nessun vaccino a mRNA era mai stato approvato per l’uso.
I vaccini non danno immunità
e non impediscono la trasmissione
Un articolo del British Medical Journal ha evidenziato che non sono stati nemmeno eseguiti studi per provare a valutare se i “vaccini” limitassero la trasmissione.
Gli stessi produttori di vaccini, dopo aver messo sul mercato le loro terapie geniche non testate, hanno ripetutamente specificato che “l’efficacia” del loro prodotto si basa solamente sulla “riduzione della gravità dei sintomi”.
I vaccini sono stati approvati troppo in fretta
Lo sviluppo di un vaccino è un processo lento e laborioso. I vari vaccini per il Covid sono stati tutti sviluppati e approvati in meno di un anno. La stessa Pfizer lo ammette nel contratto di fornitura con il governo albanese: “Gli effetti a lungo termine e l’efficacia del vaccino non sono attualmente noti e potrebbero esserci effetti avversi del vaccino attualmente sconosciuti”.
In aggiunta, nessuno dei vaccini anti-covid è stato sottoposto a trial adeguati. Molti di essi hanno saltato completamente le prove in fase iniziale, i test in fase avanzata non sono stati sottoposte a revisione paritaria, i dati non sono stati resi pubblici, i trial si concluderanno nel 2023 o sono stati sospesi dopo “gravi reazioni avverse”.
Ai produttori di vaccini è stata concessa immunità
Il Public Readiness and Emergency Preparedness Act (PREP) degli Stati Uniti garantisce loro l’immunità almeno fino al 2024. L’UE ha fatto lo stesso, con clausole riservate nei contratti con i produttori. Il Regno Unito è andato anche oltre, concedendo impunità perpetua al governo e ai suoi dipendenti per qualsiasi danno arrecato a un paziente curato per covid. Il contratto albanese citato più sopra rivela che Pfizer richiede questa indennità come clausola per la fornitura di vaccini: “L’Acquirente con la presente accetta di indennizzare, difendere e garantire immunità alla Pfizer […] da e contro qualsiasi causa, reclamo, azione, richiesta, danno, responsabilità, transazione, sanzione, multa, costo e spesa”.
Covid-1984: L’Unione Europea pensava ai “passaporti vaccinali” un anno prima della pandemia
L’UE voleva “passaporti vaccinali”
un anno prima della pandemia
Due documenti ufficiali dell’UE pubblicati nel 2018, il 2018 State of Vaccine Confidence e una relazione tecnica dal titolo Progettare e implementare un sistema di informazione sull’immunizzazione avanzano la possibilità di creare un sistema di monitoraggio delle vaccinazioni a livello europeo. Queste proposte sono poi confluite in una Vaccination Roadmap nel settembre del 2019, che tra le altre cose ha commissionato uno studio per stabilire la fattibilità dei passaporti vaccinali da cominciare nel 2019 e terminare nel 2021.
Le istituzioni europee hanno dunque mentito, presentando le misure anti-pandemia come emergenziali, mentre molte di esse (come introdurre altri vaccini obbligatori e inserire i dati sanitari di ogni cittadino europeo direttamente nel suo passaporto) esistevano da prima che emergesse il coronavirus.
Con il covid è scomparsa l’influenza
Alla fine di aprile 2021 Scientific American ha pubblicato un editoriale dal titolo L’influenza è scomparsa da oltre un anno. In esso si afferma che quando il nuovo coronavirus ha iniziato la sua diffusione globale, i casi di influenza segnalati all’Organizzazione Mondiale della Sanità sono scesi a livelli minimi.
Secondo gli epidemiologi la ragione potrebbe risiedere nelle misure di sanità pubblica adottate adottate contro il coronavirus, in particolare l’uso di mascherine e il distanziamento sociale. I virus dell’influenza si trasmettono infatti più o meno allo stesso modo del SARS-CoV-2, ma sono meno efficaci nel passare da un individuo all’altro.
Le statistiche affermano che da 130 anni non c’erano dati così bassi sull’influenza. In Gran Bretagna nella seconda settimana di gennaio 2021, normalmente il periodo peggiore per il virus stagionale, il numero di individui affetti da sintomi simil-influenzali segnalati ai medici di base si sono ridotti a 1,1 ogni 100.000 persone, rispetto a una media quinquennale di 27.
Negli Stati Uniti, per esempio, da febbraio 2020 i casi di influenza sono diminuiti di oltre il 98%.
Questo andamento si è verificato praticamente in tutto il mondo. Nessuno, ovviamente, può azzardarsi a sospettare che i casi di influenza siano scomparsi perché considerati tutti “covid”.
La pandemia ha creato nuovi miliardari
Almeno nove imprenditori sono diventati miliardari durante la pandemia di covid, grazie principalmente ai profitti che le società farmaceutiche con monopoli sui vaccini stanno realizzando. I nove nuovi miliardari hanno accumulato una ricchezza totale di oltre 19 miliardi di dollari. In aggiunta, otto miliardari provenienti dall’industria farmaceutica hanno aumentato il loro patrimonio collettivo di oltre 32 miliardi di dollari. In cima alla lista dei nuovi miliardari ci sono il CEO di Moderna Stéphane Bancel e il cofondatore di BioNTech Uğur Şahin, ciascuno con un patrimonio in dollari di oltre 4 miliardi. L’elenco include anche due dei primi investitori di Moderna e il Presidente della società..
Il più ricco di questi nuovi miliardari è Li Jianquan, presidente di Winner Medical, che ha aumentato la produzione di mascherine e tute mediche per i lavoratori di tutto il mondo. Dalla Cina giungono anche Liu Fangyi, fondatore e presidente di Intco Medical (produttore di dispositivi di protezione individuale), Yuan Liping (imprenditrice cinese di cittadinanza canadese che ha prodotto vaccini con la Shenzhen Kangtai Biological Products, di cui detiene il 24% dopo aver divorizato dal Presidente dell’azienda) e Dai Lizhong, produttore di kit diagnostici.