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Da covidioti a kievidioti: la libertà è tornata a essere più importante della sicurezza

Del primo settennato di Sergio Mattarella non rimangono, obiettivamente, momenti memorabili o frase degne di essere tramandate ai posteri; tuttavia, uno dei tanti suoi discorsi “di circostanza”, durante l’epoca degli stati di emergenza, ha acquisito un significato del tutto inedito (o, considerando l’insignificanza quasi ontologica a cui si alludeva, un significato tout court); mi riferisco all’intervento per il 74° anniversario della Liberazione del 25 aprile 2019 a Vittorio Veneto, nel quale il Presidente della Repubblica ammonì gli italiani a non rinunciare alla propria libertà in cambio della sicurezza (“ordine e tutela”):

«La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva».

Ancora qualche settimana prima che il popolo italiano appunto barattasse la propria libertà in cambio della tutela (declinata in senso sanitario), lo stesso Capo dello Stato dimostrava davvero di credere alle sue parole recandosi, il 6 febbraio 2020, in una scuola primaria della periferia romana “con altissima presenza della comunità cinese” per lanciare un messaggio “rassicurante e antirazzista”, facendosi ritrarre abbracciato a bambini con gli occhi a mandorla.

Dopodiché, come ricorderete, in un batter d’occhio si verificò la trasvalutazione di tutti i valori repubblicani in nome dell’emergenza pandemica e gli italiani rinunciarono, nemmeno troppo gradualmente, a quella libertà alla quale, almeno a parole sembravano profondamente attaccati. Pure Mattarella si affrettò con una serie di dichiarazioni a ratificare il novus ordo fino a giungere, con un altro “memorabile” (sempre lato sensu) discorso, a negare la gerarchia di valori stabilita un anno e mezzo prima in cambio di una promessa –apertis verbis– di tutela:

«Non si invochi la libertà per sottrarsi alla vaccinazione, perché quell’invocazione equivale alla richiesta di licenza di mettere a rischio la salute altrui e in qualche caso di mettere in pericolo la vita altrui.
Chi pretende di non vaccinarsi – naturalmente con l’eccezione di coloro che non possono farlo per motivi di salute – e comunque di svolgere una vita normale, frequentando luoghi condivisi, di lavoro, di intrattenimento, di svago, in realtà costringe tutti gli altri a limitare la propria libertà, a rinunziare a prospettive di normalità di vita […].
Ma io vorrei pensare soprattutto alla stragrande parte dei nostri concittadini che invece, con grande senso di responsabilità, ha adottato scelte e comportamenti responsabili, appunto.
Ma non posso non dire una parola sui fenomeni e sulle espressioni di violenza, di minacce che affiorano in questo periodo contro medici, contro scienziati, contro giornalisti, contro persone delle istituzioni. Sono fenomeni allarmanti e gravi che vanno contrastati con fermezza.
La violenza e la minaccia di violenza va anche sanzionata con doveroso rigore, per tutelare coloro che – la stragrande maggioranza dei nostri concittadini – hanno adottato comportamenti responsabili, avvertendo il comune dovere di solidarietà» (dall’ntervento alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Accademico 2021-2022, Pavia, 5 settembre 2021).

Si sorvoli sui presupposti non solo politici e morali di questo discorso, ma soprattutto scientifici ed epistemologici. Non tanto perché non ci si voglia impegnare in una approfondita disamina delle “ragioni” di chi ha instaurato un regime, in forma di dittatura sanitaria, basato sull’emergenzialismo e la discriminazione; quanto perché il flusso mediatico predominante (unica traduzione possibile di mainstream) con l’intervento russo in Ucraina, ha ormai eseguito un salto di paradigma all’indietro, tornando a ristabilire il primato della libertà su quello della sicurezza.

Ecco dunque che i discorsi di Mattarella cambiano ancora registro: adesso la tutela non solo del popolo italiano, ma di tutti i popoli, deve passare in secondo piano rispetto alla libertà – degli ucraini, s’intende (e non solo della libertà, perché, come ha detto l’8 marzo 2022, “in gioco non c’è soltanto la già grande questione della libertà di un popolo, ma la pace, la democrazia, il diritto, la civiltà dell’Europa e dell’intero genere umano”).

Non so bene a quale cultura politica o a quale sistema filosofico (ma nemmeno a quale mera ideologia) ci si possa appellare per giustificare questi continui cambi di paradigma, tuttavia noto che una volta che l’ordine viene impartito da qualche parte, il “flusso” si adegua immediatamente. Voglio qui portare, solo a titolo d’esempio, il caso del teologo prêt-à-porter Vito Mancuso, che qualche giorno fa su “La Stampa” ha sostanzialmente invocato il “morire per Kiev” sotto forma di accorato appello alla libertà – sempre degli ucraini, s’intende.

Non dimentichiamo, en passant, quanto il buon Mancuso sin dai primordi della dittatura sanitaria si sia concesso ogni genere sparata: durante il primo lockdown, per esempio, intimò agli italiani di non lamentarsi, ché “non siamo rinchiusi in una cella come i detenuti”, ed elogiò la chiusura delle chiese come una realizzazione del vero cristianesimo, stigmatizzando chi chiedeva la loro apertura come “quel genere di uomini che hanno sempre usato Dio per i loro traffici terreni” (è un teologo, sì). Trovate tutto sul suo sito: inutile proporre qui una galleria degli orrori (solo per il gusto della citazione: «Per fortuna che lo Stato lo ha fatto [il lockdown]. C’è per questo. Per garantire per prima cosa la sicurezza ai cittadini, la sicurezza sanitaria. E mi viene da dire menomale che viviamo in uno stato di diritto, capace ancora di far rispettare le proprie decisioni»).

Concentriamoci sulla libertà: non solo Mancuso era convinto che chi la invocasse durante il coprifuoco fosse “solamente un egoista che non ha idea che la sua libertà non sia l’assoluto”, ma fino a ieri aveva appunto tentato in tutti i modi di relativizzarne il concetto stesso, riducendola a un “processo”, qualsiasi cosa ciò voglia dire (“La libertà non è uno stato definito: è un processo”).

Finché il popolo ucraino (e incidentalmente anche le proposte di legge sull’eutanasia, ma non mettiamo troppa carne al fuoco come fa lui) non ha fatto cambiare repentinamente idea al teologo, ripristinando nel suo cervello di un concetto di libertà (anzi, Libertà) assoluto e insindacabile:

«[…] La domanda apocalittica o rivelativa che sento premere dentro di me è la seguente: vale di più la vita o la libertà? […] Vi è chi risponde la vita ed è disposto per questo a sottomettere la sua libertà piegandosi all’invasore e accettando la sottomissione, pensando magari poi di resistere in modo non violento mediante forme di disobbedienza civile. Chi agisce così lo fa o perché non potrebbe mai abbracciare un’arma per sopprimere anche solo una singola vita, […] o perché, calcolando l’entità delle forze in gioco, pensa che resistere è inutile, anzi aumenta di molto il numero delle vittime.
Vi è invece chi risponde la libertà, ed è disposto per questo a mettere in gioco la vita propria e altrui contrastando con le armi l’invasore perché avverte il dovere morale di difendere il proprio paese e i propri cari, e mai accetterebbe di perdere la libertà. Meglio morire, dice, che vivere come schiavo.
[…] Si tratta di due opzioni entrambe legittime e rispettabili, dietro le quali vi sono filosofie e spiritualità degne della più alta considerazione. La domanda giusta quindi a questo punto non è “chi ha ragione?”, perché non lo sapremo mai: non c’è un tribunale assoluto della storia […]. Qui e ora c’è solo il tribunale relativo della coscienza di ognuno di noi e quindi la domanda giusta è: tu, da che parte stai? Che cosa è più importante per te, la vita o la libertà? La dimensione fisica o la dimensione morale dell’esistenza?
Se per te è più importante la vita, […] aiuterai gli ucraini dal punto di vista umanitario e diplomatico, mai però dal punto di vista militare, perché questo per te equivale a gettare benzina sul fuoco aumentando la perdita di vite umane.
Se invece per te è più importante la libertà, […] vorrai che gli ucraini, oltre che umanitariamente e diplomaticamente, siano aiutati anche militarmente.
Chi, come me, segue questa seconda via, lo fa per due motivi: perché ritiene che la via diplomatica e la via militare si rafforzino reciprocamente, dato che un conto è trattare con chi è vincitore e un altro con chi è ancora alle prese con un popolo libero e indipendente; e soprattutto perché ritiene che per un essere umano non vi sia nulla di più importante del senso di giustizia, di dignità e del desiderio di libertà. È la lezione di “Bella ciao”: il fatto cioè che qualcuno, trovando l’invasore, dica a se stesso “mi sento di morir” e divenga partigiano. Laddove è chiaro che quel “mi sento di morir” non esprime un desiderio di morte ma un desiderio di vita, di vita libera però, perché chi canta così sente che, se non è libera, la vita non è umana. […]» (V. Mancuso, Vale di più la vita o la libertà? La guerra costringe a scegliere, “La Stampa”, 11 marzo 2022).

Per questo, in conclusione, al di là dei contenuti della tenzone si dovrebbe parlare di “kievidioti” come prima si è parlato di “covidioti”: il coronavirus e l’Ucraina sono solo pretesti (anche abbastanza casuali) per proseguire guerre sia culturali sia, purtroppo, materiali: il dilemma di fondo è se vi sia davvero un criterio a regolare tutto questo bailamme. A mio parere l’unica regola che si potrebbe identificare è il cupio dissolvi, il desiderio di cancellarsi, sparire dalla storia, a volte mascherandolo con la paura del raffreddore, a volte con della becera propaganda bellica. Lo scopo ultimo rimane sempre la corsa all’auto-distruzione dettata dal Selbsthass. L’importante è annullare noi stessi, come italiani, come europei, come occidentali, come esseri umani.

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