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Da Osama a Dash. Una guerra per tutti e per nessuno

Mi sono spesso domandato se l’ingombrante presenza mediatica di Osama Bin Laden abbia mai influenzato in qualche modo le vendite della Osama SpA, storica azienda italiana conosciuta principalmente per le penne. Purtroppo le informazioni sulla ditta scarseggiano: il sito ufficialmente è ancora in costruzione e non c’è nemmeno una pagina di Wikipedia a immortalarne i successi commerciali.

Dai pochi dati ricavati da internet, sappiamo che la Osama SpA nasce alla fine degli anni ’60 come importatrice esclusiva della “uni-ball”, marchio della Mitsubishi Pencil Company. Nei decenni successivi l’Azienda si espande, mette in commercio prodotti propri e allarga la sua influenza all’informatica e allo sport. Il nome della ditta è dunque legato agli esordi “nipponici”: Osama è la trascrizione di 王様, che in giapponese vuol dire “Re” (letteralmente “Grande Signore”). Notiamo di sfuggita che una traslitterazione corretta prevede la “o” lunga (“Ōsama”) o una doppia “o” (“Oosama”), ma queste sono sottigliezze (d’altronde anche “Osama”, inteso come Bin Laden, non corrisponde a una traslitterazione esatta dall’arabo).

La questione cruciale dell’influenza di Bin Laden sulle vendita della Osama S.p.A. si è ripresentata quando un altro marchio amatissimo dagli italiani ha rischiato di finire nel mirino del terrorismo islamico: Dash. È solo per caso, infatti, che l’Isis non sia arrivato sulle pagine dei nostri quotidiani con tale acronimo; peraltro il rischio non è ancora scongiurato, poiché recentemente sia François Hollande che il suo ministro degli Esteri, Laurent Fabius, hanno provato a imporre la nuova dicitura per non «creare confusione tra i cittadini» (ovvero, a torto o a ragione –ma comunque in modo ipocrita–, per censurare l’aggettivo “islamico”).

Come volevasi dimostrare, qualche giornalista italiano ha immediatamente notato la corrispondenza: «Durante il vertice sull’Iraq, lunedì, François Hollande ha parlato più volte di “Daech”. […] Pochi astanti hanno capito il termine, pronunciato “dash”, che ricorda tra l’altro la marca di un popolare detersivo». Peraltro anche sul modo con cui definire quelli che Fabius chiama “tagliagole”, sono sorte alcune controversie, che possiamo tranquillamente ignorare: quel che preme è che lo storico detersivo non venga compromesso da sciagurate associazioni mentali.

La Dash tiene molto alla sua immagine: non è un caso che essa compaia sia sulla Wikipedia italiana («Dash è uno dei primi detersivi per lavatrice introdotto nel mercato italiano») che in una citazione sulla Wikipedia in inglese, dove si rimarca la fortuna del marchio nel Bel Paese: «It’s still present in the European market, it’s one of Italy’s leading brands of laundry detergents».

Inoltre l’importanza data dall’azienda alla comunicazione è dimostrata anche da brillanti iniziative come quella lanciata su Facebook, “Quali sono i tuoi ricordi legati a Dash?”. In aggiunta, sembra che il marchio Dash negli Stati Uniti non esista più da tempo e che lo zoccolo duro del mercato sia rappresentato proprio il nostro Paese. Non osiamo immaginare il danno commerciale che Fabius potrebbe arrecare alla ditta: I tagliagole della Dash… qualcuno dovrebbe fare qualcosa.

La questione non è affatto secondaria perché oggi più che mai la battaglia si gioca soprattutto nell’ambito del “Quinto Potere”. L’affinità con i cattivi delle pellicole hollywoodiane fanno dell’Isis un avversario mediatico perfetto. Sappiamo che ciò che i suoi capibastone spacciano per islam è più che altro una ideologia derivata dal cosiddetto Jihad Cool. Del resto è comprensibile che solo individui nati e cresciuti in Germania, Francia, Inghilterra o Stati Uniti possano essere capaci di un odio così feroce e ottuso contro la società che, tra le altre cose, gli ha offerto anche la stessa possibilità di odiarla così ferocemente e ottusamente. Non c’è nulla di spirituale in tutto questo: sono spietati perché empi e sono empi perché spietati (entrambi gli aggettivi condividono la stessa radice etimologica).

Quindi non chiamiamola “guerra di religione”, neanche per semplice opportunismo: sarebbe più saggio a tal punto organizzare una crociata per le penne e i detersivi, per impedire ai cattivi di infangarne il brand. Perché la cosa davvero importante è difendere il proprio stile di vita, che è già qualcosa di più di una ortopratica (e gli stessi jihadisti lo capiscono eccome, infatti non disdegnano nulla della civiltà occidentale: vogliono semplicemente impossessarsene).

Tuttavia, come sosteneva Nietzsche, «la buona guerra santifica ogni causa». Ai nostri giorni molti amano citare il motto, attribuendogli l’interpretazione scontata che non importa per quale causa si fa la guerra, perché l’importante è combatterla bene. In realtà il concetto è più complesso e rientra nella polemica con la tradizione precedente che anteponeva ipocritamente la “morale” alla volontà di potenza. In questo (e in altro) il filosofo sbagliava: non può esistere la buona guerra senza una buona causa. Ciò che forma la “buona causa” è sì al di là del bene e del male, poiché è un insieme di crudeltà, materialismo, rudezza, ingiustizia e brutalità.

Nessun uomo si presta facilmente a combattere per l’Idea. Per dissuadere il cittadino dal disertare, c’è bisogno che nella sua mente si formi l’immagine di una zolla di terra intrisa di sangue (questo per quanto riguarda l’immaginario novecentesco, che a tratti funziona ancora).

Gli Stati Uniti rappresentano, nella contemporaneità, un caso esemplare della “cattiva causa”: cominciano le loro guerre con una aggressività inverosimile, ma incapaci di portarle a termine le trasformano in azioni di difesa. È bastato qualche mese per trasformare la “guerra al terrorismo globale” indetta dopo l’11 settembre in una “esportazione della democrazia”. Il potenziale ideologico dell’umanitarismo si è però consumato in un breve lasso di tempo ed è ormai diventato oggetto di scherno, al pari dei summit multimilionari per la fame del mondo.

Nemmeno il business può valere come “buona causa”: l’investimento non rende né economicamente né militarmente. La cheap war, fatta di servizi esterni, privatizzazione delle truppe, “cordate per la ricostruzione” e “aiuti d’emergenza” si è trasformata nella guerra più costosa della storia.

L’unica “buona causa” che i soldati americani possono prendere per buona (chiedo venia per il gioco di parole) è simbolizzata dal plotone di marines che nel finale di Full Metal Jacket intona la marcia di Topolino.

La “dimensione domestica”, pura antitesi a quella bellica, funziona sempre quando le argomentazioni sono finite. Agli albori della prima guerra mondiale, Ardengo Soffici tentò di convertire i socialisti alla causa interventista con una tesi stucchevole: se le libertà conquistate dai socialisti e  le stesse idee del socialismo italiano sono un prodotto italiano, allora il socialismo e la civiltà italiana hanno i medesimi nemici, i tedeschi. Era la vecchia idea pascoliana della patria-nido rispolverata per il secolo della guerra totale.

Oggi, le Idee (o almeno le ideologie con la “I” maiuscola), scarseggiano. Eppure per molti anni la propaganda è riuscita a dilettare il pubblico con le donne afgane senza velo e gli uomini in fila dal barbiere: ideologia domestico-internazionale. Corrispondente a quest’ultima è l’ideologia domestica “pura”, costruita sulle parole-chiave “patria” e “libertà”, che in epoca di globalizzazione vengono sostituite dal puro e semplice “stile-di-vita”. Promuovere il proprio stile-di-vita nella società globale vuol dire o esportarlo pacificamente oppure andare a difenderlo in terra straniera: non è un caso che alcuni soldati siano talmente assuefatti ai social network da mettere in pericolo la propria sicurezza in nome di una misera “visibilità”.

Considerando il ruolo avuto da Twitter nelle pseudo-rivoluzioni contemporanee (“primaverili” o “colorate”), sembra che stia nascendo una ideologia mediana tra la dimensione domestica-pura e la dimensione domestico-internazionale. Può darsi che in un futuro, oltre ai fornitori di mercenari e alle aziende per la “ricostruzione”, interverranno direttamente sul campo di battaglia sponsor meno seriosi, più al passo coi tempi, con qualche strategia di marketing emozionale, kitsch, internazionale. Benjamin R. Barber scriveva in Jihad vs. McWorld (1995) che

«il nuovo semisovrano è costituito dalla classe di specialisti dell’informazione e delle comunicazione che creano e controllano i beni immateriali della nostra civiltà globale: libri, film, programmi informatici, riviste, videoclip, parchi tematici, annunci pubblicitari, canzoni, software quotidiani e programmi televisivi».

Oggi quel tipo di potere postmoderno, che sempre Barber definisce Infotainment Telesector, è in mano a soldati provvisti di profilo Facebook. Il contractor (già di per sé è un “servizio” offerto all’azienda-America da parte di aziende private) diventa quindi specialista dell’infotainment, in missione speciale per qualcosa che è sì “profitto”, “mercato”, “capitalismo”, “speculazione” ecc…, ma che nel contempo coinvolge direttamente lo “spirito”, e quindi richiede sacrificio. In fondo, chi non combatterebbe per il proprio lifestyle? È così che il cerchio si chiude: l’ultimo uomo nicciano, il Letztemensch, il più spregevole di tutti, quello che ricerca solo il benessere e la sicurezza, può ancora essere un buon soldato; finalmente il suo gesto stabilisce l’unica via d’uscita dall’aporia: annichilire il nichilismo.

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