Dalla Groenlandia alla Romania è tutto un Risiko: Europa, sei circondata!

In Groenlandia e Romania, due Paesi facenti parti dell’Unione Europea (eh sì), le elezioni (svoltesi, annullate o ancora da organizzare) stanno generando diversi terremoti (geo)politici.

Partiamo dal caso più facile, quello della “Terra Verde”: a quanto pare le elezioni sono state anticipate all’11 marzo 2025, nonostante l’ultimo esecutivo fosse comunque “indipendentista”, esclusivamente per le dichiarazioni di Donald Trump. L’affluenza alle urne è stata senza precedenti (circa il 74% degli aventi diritto) e il quadro che ne è uscito è complicato tanto quanto le premesse: sembra che abbiano vinto i “trumpiani moderati” di centro-destra (Demokraatit, 30% dei consensi) a fronte di un panorama dominato negli ultimi anni dai socialdemocratici (anch’essi comunque indipendentisti) Inuit Ataqatigiit e Siumut.

Non so come la stampa italiana stia raccontando gli eventi, ma mi pare si possa dire che l’indipendentismo abbia trionfato su tutti i fronti (praticamente tutti i partiti sono concordi sul tema): l’unico dilemma resta se giungere a tale esito, a quanto pare inevitabile, da “destra” (farsi annettere dagli Stati Uniti) o da “sinistra” (rimanere nell’Unione Europea).

Da ciò dipenderà anche la formazione del nuovo governo, che potrà rivolgersi o ai vecchi partiti oppure puntare tutto sul Naleraq, il quale sostiene un’indipendenza immediata e ha mandato un suo rappresentante all’inaugurazione di Trump (anche se non ha espresso apertamente la volontà di “annessione”).

Al di là delle tifoserie, entrambi i versanti del vasto mondo “irredentista” groenlandese hanno le loro ragioni, perché da una parte ci sono gli “europeisti” che vorrebbero un nuovo accordo con Bruxelles sottoponendo lo sfruttamento delle enormi risorse presenti sull’isola (le quali sono l’unico motivo per cui ora è al centro delle attenzioni mondiali) a un aumento dei flussi di sussidi (tramite la Danimarca) che consentono di sostenere le finanze pubbliche.

Dall’altra, invece, gli “americanisti” (diciamo così) pensano che questo sistema sia obsoleto e non in grado di garantire una reale indipendenza all’eventuale nazione che nascerà nei prossimi anni. Washington offre la prospettiva (o il miraggio) di un modello dinamico che possa garantire un welfare più sostenibile sulla lunga distanza rispetto all’assistenzialismo praticato dall’Unione Europea.

Non si capisce, alla fine, in che modo Bruxelles possa contrastare l’ingerenza degli Stati Uniti senza un intervento diretto, come sta facendo in questi mesi, per spostarci da un Nord-Ovest più politico che geografico a un confine concretamente orientale, in Romania.

Il primo turno delle elezioni presidenziali romene, come è noto, è stato “invalidato” dalla Corte Costituzionale a causa di presunte interferenze russe a favore di Călin Georgescu, il candidato “di estrema destra” che aveva ottenuto un consenso troppo alto (circa il 23% dei voti) ed è ora al centro di varie controversie giudiziarie che puzzano un po’ di macchinazione (sto pensando ai biglietti aerei per Mosca ritrovati nella sua abitazione), culminate infine nella sua esclusione dalla corsa elettorale.

Il motivo principale della “rimozione forzata” di Georgescu risiede nell’accusa di aver progettato un golpe con finanziamenti del Cremlino e il sostegno di “organizzazioni fasciste, razziste, xenofobe e antisemite” (pittoresca l’accusa di voler cambiare persino il nome della nazione in Getia). Il candidato populista, nonostante si opponga alla “sottomissione alla NATO” (o forse proprio per questo?), è stato difeso da Elon Musk e dal vicepresidente americano JD Vance, che nel suo recente intervento a Monaco aveva denunciato le pressioni delle altri capitali europee verso Bucarest per l’annullamento delle elezioni. (queste accuse, peraltro, sono state appena rilanciate dalla direttrice dell’intelligence americana Tulsi Gabbard).

L’Unione Europea, dal canto suo, sembra compiacersi della decisione presa dalle autorità romene, e ha evidentemente caldeggiato tale esito sia avviando le indagini su TikTok (ormai il social del “nemico”) sia lanciando costanti reprimende contro la fatidica “ingerenza russa”. Sono risibili gli appelli alla “regolarità del processo elettorale” nel momento in cui esso viene sostanzialmente annullato, ma fanno ancora più specie le sparate dell’ex commissario Thierry Breton che alla tv francese poco tempo fa aveva minacciato di applicare il “protocollo Bucarest” anche alla Germania qualora l’AfD avesse ottenuto troppi voti, nonché altre dichiarazioni di un certo Emmanuel Macron contro la “manipolazione” russa sempre in Romania.

Rebus sic stantibus, l’Unione Europea potrebbe già sfruttare il “precedente” per far annullare anche le elezioni in Groelandia dalla Corte suprema danese, visto che pure lì le “ingerenze” sono fin troppo evidenti, nonostante si abbia a che fare con un alleato. Tra l’altro, giusto per celia, si potrebbe osservare che con le stesse argomentazioni “filorusse” uno come Donald Trump ora verrebbe escluso da qualsiasi competizione elettorale del Vecchio Continente.

Invece la Groenlandia sembra aver appena messo un piede fuori dall’Unione, mentre chi vi è dentro non vede l’ora di uscirne: gli eurocrati possono pure illudersi di aver “salvato la democrazia” in Romania, ma trattare come uno Janukovič un timido epigono di Orbán quale Georgescu è un atteggiamento più che controproducente, così come rafforzare la propria immagine “sovietica” in salsa green-arcobaleno esattamente nel momento in cui Washington sta premendo su un pezzo di Danimarca presentando l’Unione come un baraccone burocratico totalitario e fallimentare.

Insomma, la strategia attuale di Bruxelles sarebbe quella di umiliare Bucarest per accattivarsi una Kiev ormai persa (posto che sia mai esistita la possibilità di farla diventare “europea”) e mandare segnali a Washington, con la speranza vana che Copenaghen non abbia di che lamentarsi: a volte però, di fronte alla realtà, sembra non ci sia “Tar del Lazio” che tenga.

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