L’opposizione ai dogmi decrescisti è ben accetta da qualsiasi parte provenga; l’unico rischio è quello di considerare la reazione gretta dell’idiota tecnologico come l’unica proporzionata alle sparate di un Serge Latouche. È anche vero che la mancanza di ritegno di tale autore, amplificata dai numerosi epigoni, obbliga talvolta ad affermare l’ovvio anche con una certa brutalità: per questo ho trovato ugualmente costruttivo il contributo di Luca Simonetti, Contro la decrescita (Longanesi, 2014), nonostante egli faccia di tutta l’erba un fascio assimilando il pensiero decrescista all’idealismo, all’irrazionalismo e al romanticismo. Del resto è inevitabile che il buon senso, represso soprattutto dagli intellettuali italiani che hanno perso da qualche decennio la pratica della ragionevolezza, riemerga in forme anche estreme.
In effetti se dovessi fare il gioco della torre tra l’opera omnia di Ivan Illich e la penicillina, cioè decidere senza quale di queste due cose il mondo sarebbe peggiore, è chiaro che butterei giù Nemesi medica e tutto il resto: ma è un concetto che va espresso in modo discreto, anche perché persino nel calderone irrazionalistico imbandito da Simonetti, che va appunto da Illich a Evola e da Labriola ad Adorno, si possono trovare spunti positivi.
Tanto per citare, nella famigerata Dialettica dell’illuminismo si afferma che «l’ostilità alla meccanizzazione è divenuta un semplice ornamento della cultura industriale di massa, che non può fare a meno del bel gesto. […] L’esaltazione dei fenomeni vitali, dalla bestia bionda all’isolano dei mari del Sud, sfocia inevitabilmente nel film “esotico”, nei manifesti pubblicitari delle vitamine e delle creme di bellezza […]»; a ben vedere, un’affermazione non così lontana da alcune notevoli intuizioni di Simonetti, come l’accostamento della decrescita al liberismo: «Senza neanche accorgersene, la decrescita fa sua la ricostruzione che del mercato e dell’economia hanno dato gli economisti e i filosofi neoliberisti, per cui cioè l’economia è un sistema autonomo e interamente separato dalla politica e dalla società, che va da sé […]» (p. 54).
Questo solo per ricordare che è sempre meglio distinguere Adorno-Horkheimer da Latouche & co., cioè chi propone una riflessione critica sulla filosofia europea degli ultimi tre secoli da chi parla di “lavatrice condominiale”, “arte di arrangiarsi” e amenità del genere.
Ad ogni modo si dovrebbe evitare di leggere troppo questo Latouche, anche perché basta una sola riga per rivalutare persino la dépense batailliana: «Le luxe, le deuil, les guerres, les cultes, les constructions de monuments somptuaires, les jeux, les spectacles, les arts, l’activité sexuelle perverse (c’est-à-dire détournée de l’activité génitale) représentent autant d’activités qui, tout au moins dans les conditions primitives, ont leur fin en elles-mêmes» (La Notion de dépense [1933], Les Éditions de Minuit, Paris, 1967, p. 28). Il lusso, i lutti, le guerre, i culti, i monumenti, i giochi, gli spettacoli, le arti, persino l’attività sessuale perversa (eh?): non c’è nulla di meglio di dispendersi in tutti i modi possibili. Da Bataille a Keynes, e ritorno.
A parte gli scherzi, la tentazione diventa irresistibile quando ci si ritrova il Latouche a rimorchio della Laudato si’ di Papa Francesco, probabilmente alla ricerca di una beatificazione (a questo punto non solo letteraria): grazie al cielo (o Chi per esso) qualche intellettuale cattolico è intervenuto a fare un po’ di chiarezza. Si legga, ad esempio, l’intervista dell’economista Stefano Zamagni a “Mondo e Missione”, La parola: Decrescita («La ricetta non è la decrescita globale, ma una crescita sostenibile per tutti»), oppure le coraggiose considerazioni di Sandro Magister (valga come esempio, anche se ne parla in modo indiretto, l’articolo Benvenuti i ricchi. Francesco li accoglie a braccia spalancate, “l’Espresso”, 11 marzo 2016: «Immaginare che la ricchezza sia una realtà preesistente, accaparrata da pochi a scapito dei molti, e quindi basti redistribuirla con equità, è del tutto fuorviante. A muovere l’economia mondiale non è l’abbondanza di beni, ma la loro scarsità»).
L’idea che sul terreno della Spesa Pubblica Improduttiva possano incontrarsi Bataille, Keynes e Leone XIII (ma pure Papa Borgia) è alquanto suggestiva. Del resto il buon Latouche ha tirato troppo la corda: anche se ultimamente ne ha sparata qualcuna contro l’austerità (solito specchietto per allodole), è ormai palese come la sua retorica si ponga al servizio di un progetto oligarchico e regressivo. Slogan come «La Felicità interna lorda è più importante del Prodotto interno lordo» sono appunto solo trovate pubblicitarie che possono avere successo esclusivamente in una società dove nel PIL vengono conteggiate anche le produzioni immateriali (che possono essere pure stronzate sesquipedali, ma proprio perché siamo “sviluppisti” non chiederemmo mai a Latouche di far decrescere la sua ridondante bibliografia).
Sarebbe necessario formare dei Comitati di Liberazione internazionali contro questo progetto abominevole: dispensarsi, nel senso di spendersi, anche a livello intellettuale. In realtà il compito dovrebbe essere abbastanza semplice, considerando che le balle di Latouche hanno successo finché l’adepto non si accorge che dal magico mondo della “crescita per pochi” quelli come lui sono esclusi. Il lettore di Latouche non può continuare a far finta che i deliri del suo guru non siano diretti contro di lui: è proprio lui che deve smettere di usare il computer, di viaggiare, di avere il riscaldamento in casa, di farsi una doccia ogni tre giorni ecc…
L’idillio è sempre per pochi: la vita contadina non è biologica, a chilometro zero ed ecosostenibile; e anche se lo fosse, nessuno vorrebbe viverla sul serio. In fondo si possono utilizzare toni alati non solo per infiorettare la “abbondanza frugale” (che non è affatto una bella cosa) ma anche per esaltare la caccia incessante alle risorse che non si fermerà finché resterà almeno un uomo sulla Terra (o su altri pianeti). In fondo è sempre meglio avere a che fare con la predazione, la voracità, il desiderio, o anche solo il mero istinto di sopravvivenza, che con qualsiasi altra “virtù” imposta dalla decrescita. La cosa può rincrescere, ma almeno non decresce.