Difficile ricordare così su due piedi un Jean-Marie Le Pen appena scomparso senza affermare le solite banalità. Mi ricordo quando, ancora coi pantaloni corti, vidi campeggiare la sua immagine sui telegiornali nazionali: ritorna il fascismo, è l’allievo di Pétain, vi prego francesi votate Chirac! E giù battute sulla benda che si spostava continuamente da un occhi all’altro e allarmismi di ogni sorta che peraltro non servirono a scalfire in alcun modo l’immagine della destra istituzionale italiana, anzi rafforzarono la sua identità europeista, liberale e democratica.
In seguito studiai il personaggio senza pregiudizi e ciò che mi piace ricordare è soprattutto l’aura di vero francese che possedeva: pensiero davvero minimale (è impossibile non essere banali!), ma la sua vicenda esistenziale e politica è tutta intrisa di quell’esprit transalpino che lungi dall’accomunarlo non dico a un Almirante (al quale comunque aveva “rubato” la fiamma tricolore), ma persino a un Enoch Powell o a un Haider, lo rendeva più simile a un Charles Maurras, a un Jean Raspail o a un Dominique Venner.
Prima di tutto, era un “razza bretone”, uno de souche, come amava affermare egli stesso (in questo forse lo si può paragonare all’insuperato Giancarlo Gentilini). L’infanzia a La Trinité-sur-Mer divisa fra tradizioni rurali e marittime è pura poesia sangue e suolo, senza però quella pesantezza völkisch che porta a interpretare l’urbanità come semplice perversione. Il francese lo si riconosce anche in questo: tutto deve essere all’avanguardia, les chants de marins come la gastronomia locale da difendere come ultimo bastione etnico.
Mai strapaesano, Jean-Marie Le Pen, e nemmeno pochadiano: le sue memorie sono uno struggente viaggio (letteralmente, essendo state scritte durante una traversata oceanica!) sulla decadenza della grandeur a livello internazionale che egli ha voluto esprimere con una insopprimibile necessità di segnare la storia (ma al di là dei bonapartismi, egli si definiva mestamente un “rettificatore”). Anche questa, tendenza piuttosto “gallica” a non disdegnare lo “spettacolo”, Le Mainstream, come fonte di consenso e legittimazione: indimenticabile il connubio con Alain Delon, vera esplosione di “maschilismo sciovinista”, ma anche l’incredibile amicizia con Dieudonné (e che dire della Bardot?).
Solo in questo la sua proposta politica ha valore: per il resto, le sue idee non erano chissà che, in quanto, giusto per dire, fu ambiguamente antigollista come anticomunista, con i noti strascichi che ancora impediscono un serio dibattito su atlantismo e destra “di governo” (e sua figlia è degna epigono, nonostante la commedia della “diseredazione”).
Però era grande e non integrabile, come forse solo un Berlusconi seppe essere. Per tenerlo a bada, i francesi avrebbero dovuto infine decidersi a votarlo, in un imprevedibile ma forse inevitabile compimento del machiavellico progetto mitterandiano di una sempiterna “demonizzazione” della destra accettabile. Di quest’uomo resta senza dubbio il carisma e l’intuito, nonché la capacità istintuale di riuscire a rendersi eternamente inammissibile per il sistema.
È certo che Haider fosse frocio però, così come il maschilista sciovinista Delon non disdegnava farsi sodomizzare e praticare fellatio di tanto in tanto in gioventù. Ci sono poi altri nomi nel testo, di cui si sospetta omosessualità quanto meno latente. Non so, a Le Pen piaceva innanzitutto la figa francese, l’articolo andrebbe forse ripensato per evitare accostamenti oltraggiosi.
Calunnie .
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