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Dialogo tra Ecclesia e Sinagoga: “Malediciamo il cristianesimo tre volte al giorno”

Il trattato rabbinico Bereshit Rabbah (IV-VI sec. d.C.) gioca sull’ambiguità dell’espressione vayeshakehu, che nella Genesi (33,4) indicherebbe le dimostrazioni di affetto di Esaù nei confronti di Giacobbe, un “baciare” (nishek) che però potrebbe facilmente diventare un “mordere” (nashakh). Perché allora la commozione dei fratelli per la riconciliazione? Sempre secondo gli esegeti ebrei, si sarebbe verificato un miracolo: il collo di Giacobbe si sarebbe indurito impedendo al morso di fare danni; quindi uno piangeva per il suo collo e l’altro per i suoi denti. Divertente? Per nulla. Per i rabbini Esaù rappresentava il cristianesimo e quei versetti l’impossibilità di riconciliazione tra i cristiani e i discendenti di Giacobbe, gli ebrei.

Accade però a Roma, nel 1965. Dal Concilio Vaticano II scaturì la Nostra aetate, documento con cui la Chiesa esprimeva la volontà di riconciliarsi con l’ebraismo. Un volume illuminante della studiosa Karma Ben Johanan, Riconciliazione e malcontento: tensioni irrisolte nelle relazioni ebraico-cristiane, tratta delle diffidenze degli ebrei ortodossi nell’era della riconciliazione. La prima parte è dedicata all’entusiasmo da parte cristiana nell’avvicinamento agli ebrei, nonché ai dibattiti interni sorti nella Chiesa dopo la riconciliazione. Nella seconda sezione il libro affronta la fredda reazione del giudaismo ortodosso, compresi i sospetti suscitati dall’entusiasmo dei cristiani e la preoccupazione dei rabbini per la possibilità di un’eccessiva vicinanza.

Questo avvincente libro di Ben Johanan, esperta di relazioni cristiano-ebraiche che attualmente insegna all’Università Humboldt di Berlino, si basa anche su interviste ad alcuni dei protagonisti di quel periodo. Nella sezione iniziale del libro, come dicevamo, la Ben Johanan narra l’impegno dei teologi cattolici di afferrare il significato dell’Olocausto e scandagliare l’eredità antiebraica della Chiesa. Da un lato, sensi di colpa e ammissione di responsabilità; dall’altra, la paura del crollo dell’infrastruttura teologica cristallizzata in quasi duemila anni di storia. La dichiarazione del Concilio Vaticano II chiuse un capitolo della storia del cristianesimo e ne aprì uno nuovo. Le decisioni prese allora, tuttavia, hanno sollevato nuovi problemi, oggi ancora irrisolti.

La dichiarazione prevedeva la negazione di due postulati fondamentali riguardo agli ebrei: la colpa per la crocifissione di Gesù e l’affermazione che avessero cessato di essere il popolo eletto. Una terza nozione, l’aspirazione a vedere la loro conversione alla fine dei giorni, ha ceduto alla speranza che in futuro tutti i popoli sarebbero stati uniti nella fede in un solo Dio. Due questioni rimasero tuttavia aperte: l’esilio ebraico e l’istituzione dello Stato di Israele. Dopo che gli ebrei furono scagionati dall’assassinio di Gesù e dopo che fu riaffermato l’amore di Dio nei loro confronti, sorsero dubbi sul motivo per cui fossero stati puniti con l’esilio e sul significato della rinascita di uno Stato ebraico. Se gli ebrei sono ancora amati da Dio, qual è la validità dell’antico dogma della Chiesa che afferma che “non c’è salvezza al di fuori della Chiesa”? Gli ebrei erano esenti da questa regola?

L’autrice individua la nascita di una tendenza conservatrice ebraica in risposta al Concilio, non solo come reazione naturale alla vittoria dei riformatori, ma anche sullo sfondo delle rivolte studentesche del 1968 in Europa occidentale e negli Stati Uniti, dalla quale sorsero timori per un declino della fede.

Il libro descrive vividamente la disponibilità della Chiesa ad affrontare la sfida della modernità, a guardarsi allo specchio e condurre un esame di coscienza senza timore di scuotere le proprie fondamenta. Non è facile per una religione vecchia di 2000 anni ritrattare i dogmi seguiti nel tempo da miliardi di credenti. Non è cosa da poco rivolgere critiche a individui venerati, a libri canonici studiati di generazione in generazione. Una religione, per sua natura, trova difficile esaminarsi criticamente, e un Papa assiso sul trono di Pietro non freme dalla voglia di affermare che tutti i suoi predecessori avessero torto.

Ben Johanan ritrae il coraggio, la sincerità e la determinazione dei sostenitori della riforma nella Chiesa, che hanno affrontato l’esitazione del versante conservatore. Un punto culminante del libro è la visita di Giovanni Paolo II in Israele nel marzo 2000. La preghiera al Muro Occidentale, il suo discorso al memoriale dell’Olocausto con la richiesta di perdono da parte del popolo ebraico suscitò un profondo cambiamento nelle relazioni tra ebrei e cristiani. I suoi gesti simbolici crearono un nuovo tipo di dialogo, basato sull’amicizia e la diplomazia, che ha ridotto le argomentazioni dottrinali all’interesse di pochi esperti.

Nella seconda parte, il libro affronta la prospettiva ebraico-ortodossa sul cristianesimo. L’Autrice ha scelto intenzionalmente l’ortodossia, tra tutte le opzioni, come contrappeso alla Chiesa cattolica a causa della sua posizione egemonica in Israele e del suo ruolo fondamentale nella definizione dell’identità ebraica. Ben Johanan nota che, mentre l’approccio cristiano ha sempre mirato alla conciliazione, quello ebraico-ortodosso ha risposto al cristianesimo con crescente ostilità, che ha preceduto il Concilio Vaticano II e in seguito non ha fatto che inasprirsi.

Un esempio è la disputa halakhica sul fatto che il cristianesimo sia o meno una forma di “idolatria” (avoda zara). Durante il Medioevo c’erano differenze di opinione in tema: alcuni riconoscevano il fatto che i cristiani credessero nella fonte divina della Torah e che e le loro intenzioni fossero sincere. Tuttavia, agli occhi della maggior parte dei rabbini che decidono in materia di halakha, la fede nella divinità di Gesù e nella Santissima Trinità testimonia la presenza di una molteplicità di divinità, quindi idolatria. Le relazioni più strette tra ebrei e cristiani nell’era moderna potrebbero aver generato aspettative di un ammorbidimento nei confronti del cristianesimo, ma come hanno dimostrato Yosef Salmon, professore di storia, e Aviad Hacohen, studioso di diritto, la moderna ortodossia ebraica continua a concepire il cristianesimo come idolatria. In effetti, secondo Ben Johanan, l’idea che il cristianesimo sia idolatrico è ormai consolidata nel discorso halakhico.

Un atteggiamento sempre più negativo verso il cristianesimo emerge anche dai tentativi di restituire alla letteratura ebraica espressioni ostili al cristianesimo e di rivelare di nuovo verità nascoste per timore di incorrere nella censura cristiana. Un’altra questione contemplata dalla letteratura halakhica è se lo Stato di Israele abbia il diritto di distruggere le chiese sotto il suo governo, o se questa linea di condotta dovrebbe essere evitata solo per paura di far infuriare i goyim, come sostenuto da Rabbi Yehuda Gershuni e Rabbi Menachem Kasher.

Uno dei punti più importanti del libro è la discussione sul significato religioso della storia ebraica nella scuola di pensiero del rabbino Yehuda Ashkenazi (soprannominato “Manitou”) e dei rabbini della sua cerchia. Ashkenazi era tra le poche figure del giudaismo ortodosso a conoscere il cristianesimo. A suo parere, per duemila anni i cristiani hanno affermato che gli ebrei non capiscono i propri libri sacri, che non sono più l’Israele eletto e che sono stati puniti con l’esilio per aver crocifisso il figlio di Dio. Accuse che hanno minacciato l’identità ebraica. Ma con la nascita di Israele, aggiungeva Ashenazi, i rapporti si sono ribaltati: ora sono i cristiani a soffrire lo smarrimento di identità. Il ristabilimento della sovranità ebraica dimostra che gli ebrei avevano ragione nelle loro millenarie dispute anti-cristiane. La realizzazione delle profezie sul ritorno a Sion dimostra che solo l’interpretazione ebraica della Bibbia, e non quella cristiana, è corretta. Invece degli ebrei “testimoni della fede” per la giustificazione del cristianesimo, dice Ashkenazi, ora sono i cristiani a fare da testimoni alla rinascita del popolo ebraico: “È giunto il momento di invertire il metodo”, scrive Manitou. “A poco a poco i cristiani stanno scoprendo che non è l’ebreo ad aver bisogno di cristianizzarsi, ma il cristiano che deve giudaizzarsi“.

Un’inconscia affinità con i modelli di pensiero cristiani è percepibile anche nell’ebreo della diaspora: se agli occhi di molti rabbini questo rappresenterebbe l’ebreo ideale, secondo Abraham Isaac Kook (1865–1935) l’ebreo della diaspora si presenterebbe quasi come un cristiano. La mancanza di legami con gli aspetti pratici della vita lo avrebbe reso alienato e astratto, allo stesso modo in cui il cristianesimo preferì astenersi dalla vita materiale, dai comandamenti biblici e dalla sessualità, diventando così una religione della spiritualità.

Così, un nuovo ingrediente – una terra santa – è stato aggiunto alla negazione dei valori della diaspora portata avanti dai sionisti. Lo slogan adottato dagli alunni di Rabbi Kook, “Terra di Israele, popolo di Israele, Torah di Israele”, ha sostituito lo slogan del Ramchal (rabbino cabalista italiano del XVIII secolo), “Il Santo, Benedetto sia Lui, la Torah e Israele sono una cosa sola”. Dio è stato rimosso, il suo posto è stato preso dalla Terra d’Israele e la Torah è relegata al terzo posto.

L’approccio religioso-messianico di questi sostenitori ha anche offerto terreno fertile alla vecchia disputa tra cristianesimo ed ebraismo sulle speranze di redenzione dei profeti ebrei. Il cristianesimo le considerava realizzate con la venuta di Gesù e la cristianizzazione dell’Impero Romano. Il pensiero ebraico nel Medioevo li considerava una promessa del futuro a venire. Adesso il futuro è diventato realtà.

Uno dei limiti del volume della Ben Johanan sta nell’attenzione rivolta quasi esclusivamente ai rabbini, come se l’ostilità al cristianesimo non si possa rintracciare anche tra gli intellettuali ortodossi. Ricordiamo come esempio classico Yeshayahu Leibowitz, “sommo sacerdote” della sinistra liberal in Israele: in una lettera a David Flusser, studioso di cristianesimo primitivo e giudaismo del Secondo Tempio, che aveva accolto con favore il fatto che Eichmann si fosse rifiutato di giurare su una copia del Nuovo Testamento (“Separandosi dal Dio dei cristiani, Eichmann ha offerto ai fratelli cristiani un’occasione storica di purificare la propria coscienza religiosa e avvicinarsi al nostro comune Padre celeste”), Leibowitz espresse indignazione per i tentativi dell’interlocutore di “purificare i parassiti [sheretz] del cristianesimo con una serie di scuse”. A suo avviso, l’odio per il giudaismo e per gli ebrei che aveva generato il cristianesimo, aveva trovato “perfetta espressione nel libro peccaminoso del Vangelo” (in ebraico avon, peccaminoso, e gelion, libro, gioco di parole su Evangelion).

Leibowitz usò un linguaggio offensivo contro il cristianesimo, definì Paolo un apostata “per ripicca”, in contrasto con il racconto della sua conversione. Il cristianesimo per lui era il vero “abominio della desolazione”, una forma di paganesimo che falsificava maliziosamente i simboli presi in prestito dal giudaismo. “Malediciamo il cristianesimo tre volte al giorno”, scrisse ancora a Flusser [probabile riferimento alla Birkat Ha Minim, la preghiera con cui gli ebrei maledicono gli apostati, i settari e i nozrim, i seguaci di Gesù di Nazareth].

Il pensatore non cambiò idea dopo il Concilio Vaticano II, anzi esso gli diede modo di rinsaldare la sua idea del cristianesimo come “paganesimo”. In una lettera del 1987 a un corrispondente anonimo scrisse: “Le tue parole mi fanno sospettare che tu sia un apostata, e non sono disposto ad entrare in una discussione con gli apostati”. Meshumad, il termine ebraico, è un modo per denigrare un ebreo convertito. Leibowitz, ad esempio, definì Heinrich Heine “la figura più spregevole e abominevole nella storia del popolo ebraico”. In una lettera del 1975 descriveva il meshumad come “disprezzato dalla gente, violatore del patto, bestemmiatore, oltraggiatore e maledetto di Dio”.

Un ultimo commento che si può fare riguarda la natura del “giudaismo” con cui la Chiesa cerca riconciliazione. Un lettore del libro di Ben Johanan ha l’impressione che quasi tutti i passi compiuti dai teologi cristiani si riferiscano al giudaismo come alla religione del Vecchio Testamento, che ha preceduto il cristianesimo. Ciò suggerisce che il dialogo tra le due religioni è solo agli inizi, perché il giudaismo non è solo la religione della Bibbia ma la religione del Talmud, della letteratura rabbinica, della cabala e della preghiera. La teologia cristiana sta ancora conducendo un dialogo con se stessa e non ancora con il giudaismo che esisteva parallelamente a essa.

In questo contesto, la ricerca accademica pionieristica di entrambe le parti si distingue favorevolmente. Nell’ultima generazione, studiosi ebrei e cristiani nel mondo accademico hanno mostrato grande interesse per gli sviluppi paralleli in entrambe le religioni anche dopo che le loro strade si sono separate. L’Università Ebraica ha istituito un centro per lo studio del cristianesimo e, con un parallelismo simbolico, è stato istituito presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma il Centro Cardinal Bea per lo studio del giudaismo. Decine di libri e centinaia di articoli pubblicati negli ultimi decenni sono dedicati alle complesse relazioni tra ebraismo e cristianesimo nel corso della storia. Il libro di Karma Ben Johanan è di per sé una tappa importante in questa apertura accademica, che a quanto pare è anch’essa un risultato diretto del Concilio Vaticano II.

Concluderò con una citazione dall’epilogo del libro: “La sfida che l’istituzione dello Stato di Israele ha posto al giudaismo è simile a quella che la cristianizzazione dell’impero ha posto al cristianesimo”. Mi sembra che anche l’Autrice speri che i risultati siano diversi. Il libro dimostra che il mondo accademico ha la capacità sia di avvicinare le persone che di portare la pace nel mondo.

Fonte: Israel Jacob Yuval ‘We Curse Christianity Three Times a Day’: Can Jews and Christians Truly Reconcile? (Haaretz, 14 agosto 2020)

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