Dichiarazioni sulla Russia e Putin dai libri di Calenda, Letta, Meloni, Renzi, Salvini

CARLO CALENDA

Carlo Calenda al Forum di San Pietroburgo per firmare intese e contratti (2017, fonte)

«Il sovranismo è un’ideologia sufficientemente pericolosa per non dover scomodare Mussolini. In primo luogo perché comporta l’irrilevanza nella dimensione internazionale. Per un paese che trae sostentamento dall’export e vive a cavallo tra Medio Oriente allargato, Africa ed Europa questo è già di per sé un rischio mortale. Aggiungo che la subalternità (se non peggio) della Lega alla Russia di Putin ci porta su una strada che mette a rischio i nostri interessi economici (legati all’Ue e agli Usa) e la nostra collocazione politica tra le grandi democrazie. Ma soprattutto perché la sostituzione dell’identità nazionale repubblicana e democratica con quella etnica conduce a un regresso civile e culturale. Mi sembra già abbastanza per essere seriamente preoccupati. Ma quello che dobbiamo davvero domandarci è se ci sia il rischio per l’Italia di seguire la strada di Russia, Polonia, Ungheria e Turchia. Di diventare in poche parole un paese dove lo Stato di diritto viene compresso volontariamente (attraverso il voto) per favorire la nascita di uno Stato illiberale. Questo rischio a mio avviso esiste»
(C. Calenda, I mostri. E come sconfiggerli, Feltrinelli, Milano, 2020, pp. 20-21)

«Ero nel consiglio per il commercio dell’UE quando la Polonia spinse disperatamente per approvare l’accordo di associazione con l’Ucraina. Quell’accordo, prima accettato e poi disconosciuto dal presidente ucraino Janukovyč su pressione di Putin, determinò i disordini di Maidan. Da un lato abbiamo assecondato la speranza dell’Ucraina di poter presto entrare nell’UE e nella NATO; dall’altra non ci siamo preparati a una reazione russa. Al contrario, quando la Russia ha invaso e annesso la Crimea nel 2014, abbiamo sostanzialmente fatto finta di nulla. Non c’è niente di peggio in politica estera che mancare di valutare la forza che occorre per sostenere gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
Nel 2008, la guerra per l’Ossezia del Sud e l’invasione russa della Georgia hanno rappresentato un cambio di strategia della Russia che, come ho già scritto, abbiamo mancato di riconoscere. Dalla crisi georgiana, passando per quella siriana e per le due crisi ucraine, Putin non ha fatto altro che sfruttare quelle “linee di faglia” tra civiltà di cui parlava Huntington nel suo profetico saggio. Mentre scrivo non so ancora come finirà il conflitto ucraino. Gli obiettivi di Putin sono tuttavia chiari: un regime fantoccio a Kiev e l’annessione di fatto delle repubbliche del Donbass e della porzione di territorio che collega la Russia alla Crimea. Nella migliore delle ipotesi alla fine del conflitto ucraino ci troveremo nel mezzo di una nuova guerra fredda molto più pericolosa della precedente per due ragioni: primo, Putin è un monarca assoluto e non l’espressione di un Politburo che può rimuoverlo in caso di iniziative pericolose o sconsiderate; in secondo luogo, il rapporto con gli USA è molto più vacillante rispetto al periodo della “prima” guerra fredda.
Per questo dobbiamo abbandonare il superficiale idealismo che ha animato tutte le decisioni della nostra politica estera. Occorre purtroppo riconsiderare il valore deterrente della forza militare e prepararsi a un lungo periodo di confronto in Est Europa, nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Dovremo costruire alleanze anche con paesi che non ci “piacciono” e con i quali poco abbiamo in comune. Non possiamo sostenere contemporaneamente un conflitto con tutti i regimi autocratici: dall’Egitto, passando per l’Arabia Saudita fino ad arrivare alla Turchia. Dobbiamo comprendere che siamo tornati in un mondo multipolare che va stabilizzato. Per riuscirci occorre temperare l’approccio idealista (esportiamo i nostri valori) con una dottrina delle relazioni internazionali più realista.
[…] Se considereremo un nemico qualunque stato non democratico sulla faccia della terra ci troveremo presto in una condizione di estremo isolamento e pericolo. Abbiamo fondato la nostra politica estera, negli ultimi trent’anni, sull’idea di un mondo unipolare, egemonizzato dall’Occidente. Abbiamo agito con hybris e superficialità contribuendo a ripristinare un mondo duro e multipolare. Occorre ora rinsaldare i legami tra i paesi europei e tra l’UE e gli USA e prepararsi a giocare una partita lunga e complessa per raggiungere un nuovo equilibrio tra potenze. Altrimenti avremo una guerra mondiale che non siamo preparati a combattere. È significativo che a marzo del 2022 il Time abbia fatto una copertina dal titolo “È tornata la storia”. La storia è sempre stata con noi e se l’avessimo considerata di più non avremmo fatto gli errori che ci hanno portato a questa situazione
[…] Durante la fase più drammatica della guerra ucraina Elon Musk ha postato un tweet per sfidare Putin a duello. La cosa sarebbe comica se non fosse collegata a un evento tragico. La perdita di misura, la hybris, l’esibizionismo, l’idea di potersi permettere qualsiasi gesto assurdo e scomposto, anche durante una guerra, è stata tuttavia apprezzata dalle trecentocinquantamila persone che hanno messo un like al tweet di Musk. Questi capitalisti tecnologici riempiono la loro comunicazione di immagini “buone” e comunitarie, e contemporaneamente pagano aliquote fiscali più basse di quelle che paga un operaio e pretendono di rimuovere ogni controllo sul loro operato in nome della libertà, facendo proprie le parole d’ordine degli anni sessanta».
(C. Calenda, La libertà che non libera. Riscoprire il valore del limite, La Nave di Teseo, Milano, 2022, pp. 31-33, 38)

ENRICO LETTA

Letta al G20 di San Pietroburgo (settembre 2013)

«Io ritengo che il caos mondiale stia spingendo in questa direzione [scil. di imporre una egemonia tedesca nell’Unione Europea, cosa che ovviamente Letta vede come positiva]. Il 2014-2015 è, in tal senso, un biennio importante. Penso al conflitto Russia-Ucraina, al viaggio di Angela Merkel con François Hollande a Mosca e Kiev, alla sfida al fondamentalismo islamico, al ruolo proattivo svolto nella designazione della nuova Commissione e del nuovo presidente del Consiglio europeo. Un passo avanti c’è già. E tanti sono gli indizi che lo testimoniano. Verso la Russia, per esempio, in diciotto mesi è cambiato molto.
Torniamo, per capirlo, al G20 di San Pietroburgo, settembre 2013. Percepivamo tutti, forte, un clima da nuova guerra fredda. Ricordo la bandiera a stelle e strisce all’ingresso della residenza in riva al Baltico destinata alla delegazione statunitense e lasciata deserta da Obama. In discussione c’era l’emergenza siriana. Nel muro contro muro tra russi e americani, la Germania scelse la posizione meno profilata. Gli altri occidentali – francesi e inglesi con gli americani – spingevano per arrivare subito alla stesura di un documento comune molto duro contro il regime di Assad. Anche l’Italia, insieme al Giappone e alla Spagna, lo sottoscrisse. Mi consultai a lungo con il ministro degli Esteri, Emma Bonino, perché mi fidavo anche della sua straordinaria conoscenza delle dinamiche più intricate del mondo arabo-musulmano. Berlino aderì all’iniziativa, ma soltanto nei giorni successivi. E da quel summit uscì il racconto di una Germania quasi ansiosa di non dispiacere a Vladimir Putin. Niente di più distante dal Paese interventista di soli pochi mesi dopo, in prima fila nel guidare il fronte delle sanzioni contro la Russia. E niente di più lontano dal protagonismo degli accordi di Minsk, con Berlino promotrice di una mediazione per evitare una nuova guerra ai confini dell’Unione. Molti leggono questa centralità in chiave storica. L’Ucraina rientra tradizionalmente nelle priorità geopolitiche della Germania, sottolineano. Anche nei Balcani, altra regione d’interesse tedesco, è successo qualcosa di simile. Basti ricordare le due telefonate che la cancelliera Merkel ha fatto il giorno dopo gli incidenti avvenuti allo stadio di Belgrado, durante la delicatissima partita di calcio tra Serbia e Albania, nell’ottobre 2014. I fatti sono noti: una gara di qualificazione agli Europei interrotta per l’atterraggio in campo di un drone con la bandiera della Grande Albania, di fronte a decine di migliaia di tifosi serbi. L’intento era esplicito: innescare una nuova bomba etnica nel cuore dei Balcani. Il tutto, peraltro, con una tempistica perfetta. Non soltanto la contestualità con la crisi aperta della Crimea o la questione irrisolta della Bosnia-Erzegovina, ma anche la strettissima attualità. Pochi giorni dopo, infatti, a Belgrado si sarebbero verificati due eventi di rilievo storico. In primo luogo, l’incontro tra i giovani e dinamici nuovi leader serbo e albanese: Aleksandar Vučić e Edi Rama. Sessantotto anni dopo l’unico bilaterale tra il generale Tito ed Enver Hoxha, finalmente si poteva tentare di stabilizzare le relazioni tra i due Paesi. Premessa, secondo molti osservatori, di un percorso pensato per portarli a essere, nel prossimo decennio, il ventinovesimo e il trentesimo Stato membro dell’Unione europea.
Il secondo evento in agenda era la visita ufficiale di Putin, che avrebbe dovuto partecipare con tutti gli onori, come poi è avvenuto, alla parata militare nel centro della capitale serba. La provocazione del drone poteva avere effetti deflagranti. Invece, l’incidente è stato gestito con saggezza dai protagonisti. Vučić e Rama hanno dimostrato di rappresentare una generazione che vuole lasciarsi alle spalle i drammi del passato. Ma il ruolo determinante lo ha svolto la Merkel. E lo ha fatto a nome dell’Europa. Nelle due telefonate ha chiarito a entrambi che l’Unione non avrebbe tollerato deviazioni pericolose. Tradotto: in caso di nuove tensioni, il percorso di avvicinamento alle istituzioni comunitarie sarebbe stato congelato. Sia la scelta del tempo sia le argomentazioni sono state opportune. E alla fine, non soltanto l’incontro si è svolto, ma per la più classica eterogenesi dei fini ha avuto un esito anche migliore di quello preventivato dalle rispettive cancellerie.
A questo punto, l’interrogativo è lo stesso di prima: c’è qualcosa in più della tradizionale sfera d’influenza tedesca, stavolta nei Balcani? Io credo di sì, credo che la spiegazione sia molto più articolata di quella suggerita da un’interpretazione di tipo meramente nazionale. Al contrario, mi persuado che entrambe le crisi (o meglio, le crisi sfiorate) possano fungere da apripista per un rinnovato impegno della Germania nella politica mondiale. Non mi stupirei, per inciso, di vedere tra pochi anni la stessa Merkel candidata al ruolo di segretario generale delle Nazioni Unite».
(E. Letta, Andare insieme, andare lontano, Mondadori, Milano, 2015, pp. 28-29)

«Ricordo, in occasione della finale dei Mondiali di calcio a Mosca nel luglio del 2018, di aver ascoltato in tv una sfilza di battute, risate e applausi che mi hanno abbastanza agghiacciato. Veniva commentato l’episodio dell’invasione di campo da parte di quattro giovani manifestanti. “Pensiamo abbiano proprio scelto il luogo sbagliato, probabilmente non ne sapremo più nulla”. “La troveranno mai la chiave di quella prigione?” “Nessuno gli ha spiegato che siamo a Mosca e non a Roma?”. La mattina dopo leggevo in un sondaggio di opinione pubblicato da “Repubblica” che la maggioranza degli italiani benché consapevoli di quanto in Russia la libertà individuale sia più a rischio, si considerava più vicina ai russi che agli altri europei, tedeschi e francesi compresi»
(E. Letta, Ho imparato. In viaggio con i giovani sognando un’Italia mondiale, Il Mulino, Bologna, 2019, p. 88)

GIORGIA MELONI

«Quando si parla di una politica che in Italia ha saputo alzare la testa, e dimostrare il proprio orgoglio, si cita quasi sempre l’episodio di Sigonella, in cui il presidente del Consiglio Bettino Craxi, nel 1985, diede ordine di fronteggiare i militari americani – che senza concordare nulla con le nostre autorità avevano deviato un aereo con a bordo dei sequestratori, facendolo atterrare in Italia – per rivendicare il principio della sovranità territoriale. Ecco, il governo Berlusconi di “Sigonella” ne aveva fatte diverse, alcune delle quali persino più gravi agli occhi di certe consorterie straniere.
[…] Penso alla capacità dimostrata da Berlusconi di tenere l’Italia saldamente ancorata all’alleanza atlantica e nello stesso tempo costruire un dialogo con la Russia, mettendoci in una posizione di centralità sul piano internazionale, e riuscendo a porre le basi per iniziative come quella del gasdotto di South Stream che collegava la Russia con la nostra nazione».

«Dobbiamo curare i rapporti con la Russia per evitare di consegnarla armi e bagagli a un asse con la Cina. Sarebbe devastante per gli interessi europei e occidentali. Certo, per volerlo bisogna essere in due e anche Mosca deve fare seri passi avanti verso la comunità internazionale. Ricordo spesso col sorriso quando Berlusconi veniva ad Atreju a raccontarci i momenti in cui, da presidente del Consiglio, si era adoperato per evitare la guerra tra Russia e Georgia. Non so se sia effettivamente andata così ma ricordo bene quello che venne chiamato lo “spirito di Pratica di Mare”, quando alle porte di Roma si svolse un vertice NATO allargato alla Russia, in uno spirito di cooperazione cordiale e positivo. Quei tempi sono lontanissimi, ma la Russia è parte del nostro sistema di valori europei, difende l’identità cristiana e combatte il fondamentalismo islamico. Deve farlo in pace con le nazioni vicine, e gli Stati europei che confinano con il grande orso russo devono poter guardare al futuro con serenità senza il timore di veder tornare l’aggressiva politica imperiale di Mosca. Abbiamo bisogno di un equilibrio che assicuri una pace secolare, definitiva, tra Europa e Russia, e questo non si otterrà con la miope politica della contrapposizione muscolare tanto cara a Obama prima e a Biden adesso. Se riusciremo a farlo, con intelligenza, Occidente e Russia saranno entrambi più forti e sicuri. E il Dragone cinese sarà un po’ più solo».

(G. Meloni, Io sono Giorgia. Le mie radici, le mie idee, Rizzoli, Milano, 2021, pp. 117, 224)

MATTEO RENZI

«Il discorso più difficile l’ho pronunciato […] a San Pietroburgo nel giugno del 2016. Divento presidente del Consiglio lo stesso giorno in cui scoppia ufficialmente il caos in Ucraina, con la rivolta a Kiev in piazza Maidan, il 17 febbraio 2014. Dunque i rapporti tra Europa e Russia scendono ai livelli minimi. Nei consigli europei i toni sono quelli da guerra fredda e facciamo ogni sforzo per mitigare il codice di linguaggio, tenendo faticosamente aperto il dialogo. Vado in visita ufficiale al Cremlino, sfidando le ire dei colleghi baltici e non solo, ostinatamente convinto della necessità di tenere aperto un canale di comunicazione e di confronto. Passo a Kiev, prima di toccare Mosca. E una volta nella capitale russa non rinuncio al gesto di portare dei fiori nel luogo in cui qualche giorno prima è stato ucciso un oppositore russo, Boris Nemtsov. In Europa sono accusato di essere filorusso. In Italia quasi tutte le opposizioni mi accusano di essere antirusso. È una situazione paradossale, ma credo anche molto semplice da spiegare.
La Russia di Putin deve rispettare il diritto internazionale, a cominciare dai confini territoriali dell’Ucraina e dai diritti civili e dell’informazione. Nello stesso tempo, pensare di tornare a uno scenario da guerra fredda è pura follia. La Russia non è semplicemente il vicino di casa più grande che abbia l’Europa: è Europa, come diceva Dostoevskij. Perché lo è sotto il profilo della cultura e dei valori, innanzitutto. Mi rendo conto di non riuscire a spiegare bene questo concetto quando parlo con i miei amici americani, ma quando Dostoevskij scrive a proposito della bellezza che salverà il mondo (e lo scrive a Firenze, peraltro, in piazza Pitti, dove alloggia per qualche mese mentre lavora alla conclusione dell’Idiota), sta esplicitando un valore potente e profondo che tiene insieme Europa e Russia.
Putin lo sa bene. E così, quando l’esercito russo libera Palmira dai tagliatori di gole islamici, il presidente russo non organizza una parata con tanto di fanfara e bandiere, ma fa eseguire nell’anfiteatro romano un concerto di musica classica diretto dal suo direttore d’orchestra preferito. Putin è un tattico e uno stratega. Quando mi invita come ospite d’onore al Forum economico internazionale di San Pietroburgo nel giugno del 2016, immagina di mettermi alla prova. Accetto l’invito nonostante il parere contrario di quasi tutti i collaboratori e di molti alleati. Ci vado lo stesso, e a testa alta, a dire le cose sulle quali siamo d’accordo e quelle che ancora ci dividono. E ci vado senza alcuna incertezza, perché Europa e Russia hanno bisogno di ponti, non di muri. Questo è quello che sostengo nel mio intervento, ma difendo anche il sistema democratico americano dalle frecciatine di Putin e ribadisco l’importanza di mantenersi fedeli agli accordi siglati a Minsk: pacta sunt servanda. Concludo poi sulla necessità di tenere la Russia nella grande alleanza internazionale contro il terrorismo, con un ruolo preminente.
La complessità della questione russa, che non si presta a semplificazioni affrettate, dimostra – una volta di più – che occorre avere una visione geopolitica che non si limiti alla superficialità di un tweet, e apre un ulteriore campo di riflessione per la politica italiana. Perché è utile, utilissimo confrontarsi in materia di politica estera, in modo civile e collaborativo, anche con gli altri partiti dell’arco parlamentare. Non sono con te in maggioranza, va bene. Ma sono italiani. E come tali hanno il diritto, e il dovere, di dare una mano. Se ne sono in grado, però. Per questo mi preoccupo quando penso alla totale e scandalosa mancanza di competenze e progetti nella politica estera dei 5 Stelle, arrivando a considerarla il loro difetto più pericoloso. Tutti scrivono giustamente paginate a proposito del populismo del Movimento 5 Stelle o della mancanza di chiarezza del leader Grillo su questioni importanti legate all’evasione fiscale o alla democrazia interna. Sono argomenti di rilievo. Ma ciò che mi colpisce davvero è l’assoluta impreparazione sul versante internazionale. I rappresentanti ufficiali della linea di politica estera del Movimento sono stati capaci in questi anni di inanellare una serie di frasi davvero difficili da metabolizzare. E non soltanto in relazione alla Russia, ma anche agli altri dossier»
(M. Renzi, Avanti. Perché l’Italia non si ferma, Feltrinelli, Milano, 2017, pp. 97-98)

«La Russia continua a esercitare un’influenza geopolitica basata più sul soft power e sull’intelligenza strategica del suo Presidente che su un’economia ancora troppo fragile, nonostante la solidità nel settore energetico e i nuovi rapporti con la Cina. Tutto parrebbe dunque aprire un grande spazio d’azione a favore di Bruxelles.
[…] Nel caso di Putin […] possiamo dire che non ci sia niente di nuovo sotto il sole, dato che il presidente russo sta giocando con scaltrezza e intelligenza un’antica battaglia strategica sullo scacchiere geopolitico a cui Mosca non può rinunciare. Paradossalmente, sono gli americani ad agevolare tutto questo, dal momento che sempre di più Washington sta gradualmente abdicando al proprio ruolo di potenza chiave nell’area, forse perché, grazie allo shale gas, ha meno bisogno delle risorse petrolifere. Si può pensare che l’autosufficienza energetica ottenuta con la presidenza Obama abbia oggettivamente un impatto geopolitico che soltanto i puristi e gli idealisti possono permettersi di ignorare»
(M. Renzi, La mossa del cavallo, Marsilio, Venezia, 2020, pp. 97, 158)

«È paradossale, ma sembra che la comprensione del valore simbolico e politico del patrimonio culturale di un Paese sia più chiara nella strategia di attacco all’Occidente degli estremisti islamici che non in alcune classi politiche europee. Qualcosa del genere aveva intuito la mafia, quando a Firenze, nel 1993, decideva non solo di spezzare la vita di cinque persone, ma anche di colpire al cuore, sfregiandolo, il centro della memoria della città, gli Uffizi. Questa consapevolezza, a dire il vero, si registra anche in qualche leader globale, come Vladimir Putin, peraltro molto discusso, ma capace di capire meglio di altri il valore simbolico degli eventi culturali come alternativa e antidoto all’estremismo islamico. Ed è giusto ricordare come Putin decide di festeggiare la liberazione di Palmira: non con una sfilata di carri armati russi, ma con un concerto di musica classica, portando gli orchestrali di San Pietroburgo nell’anfiteatro in cui si svolgevano le macabre esecuzioni riprese con sapiente regia cinematografica e rilanciate sulla rete come minaccia. Così facendo quel luogo tornava a essere spazio di cultura. E, simbolicamente, Putin non solo diventava il liberatore dell’antica città delle carovane, ma, più in generale, si ergeva a difensore dell’identità culturale minacciata dalla barbarie estremista. La musica, infine, dimostrava ancora una volta di essere un linguaggio universale più forte di qualsiasi atrocità.
[…] Nel 2016, quando manca poco più di un mese al referendum, piazza del Popolo si riempie di comitati che sostengono il Sì alle modifiche costituzionali. È una giornata bellissima, sia per l’intervento di numerose personalità qualificate, sia per un meraviglioso sole autunnale che scalda una piazza gentile: tutto fuorché una manifestazione segnata dal rancore, dalla polemica o dal dissenso. Un evento gioioso e molto partecipato, una festa che si apre con il canto O sole mio. Eppure, mentre torno a casa, ricevo un sms: “Guarda il servizio che sta trasmettendo Russia Today, il canale televisivo russo internazionale”. Rispondo al mio interlocutore: “A Mosca non votano per il referendum costituzionale, lasciali fare e goditi il weekend”. Lui insiste. Alla fine cedo e mi collego all’emittente russa. Si vede piazza del Popolo gremita di nostri sostenitori. Ma il sottotitolo del servizio è chiaro: “Proteste contro il primo ministro italiano in vista del referendum costituzionale”. Come è possibile travisare così il senso di una manifestazione? mi domando. Quella è la nostra piazza, si scorgono persino i manifesti del Sì al referendum.
Decido di chiamare Putin, con il quale negli anni si è instaurato un buon rapporto di collaborazione. La telefonata è cordiale, come sempre. Dopo aver discusso di alcuni dossier caldi, che costituivano in tutti gli incontri e i contatti telefonici i principali punti dell’ordine del giorno – la Siria, la Libia, le sanzioni europee contro la Russia –, affronto direttamente la questione che mi riguarda e gli chiedo le ragioni del trattamento ricevuto da Russia Today. “Ti sembra ragionevole che Russia Today metta spesso in primo piano titoli non rispondenti al vero? Perché oggi devono fare un servizio sulle proteste contro di me se quella piazza è la piazza della mia gente, che difende la nostra riforma?”. Dall’altro capo del telefono per qualche istante solo silenzio. Poi la risposta, diplomatica: “Matteo, sai che non dipende da me cosa fanno i giornalisti. Ma cerco di capire se posso aiutarti”. Due ore dopo Russia Today aveva già corretto il tiro e cambiato titolo al servizio. Le persone che fino a qualche ora prima protestavano contro il primo ministro italiano erano diventate la folla che partecipava alla campagna referendaria a favore del Sì. Voglio ribadirlo: non sto affatto sostenendo che abbiamo perso la battaglia sul referendum per colpa dei russi o di ingerenze straniere. Ma solo chi non vuole vedere non si accorge della potenza di fuoco che viene utilizzata sui social per orientare la discussione politica. E talvolta questa potenza è rigorosamente Made in Italy»
(M. Renzi, Un’altra strada. Idee per l’Italia di domani, Marsilio, Venezia, 2019, pp. 92-93,149-150)

MATTEO SALVINI

«Fu emozionante il primo viaggio in Russia, nell’ottobre del 2014. Andai a Mosca per incontrare alcuni esponenti del partito di Vladimir Putin e degli imprenditori. Rappresentavo le istanze delle molte aziende italiane messe in ginocchio perché Bruxelles aveva imposto delle sanzioni contro i russi. Il motivo, sulla carta, era la questione della Crimea, che aveva deciso di staccarsi dall’Ucraina per unirsi alla Russia con un normale referendum. Una scelta che l’Europa non intendeva avallare e – forse su suggerimento degli USA, preoccupati dall’attivismo internazionale di Putin – aveva deciso di ostacolare attraverso alcune sanzioni economiche. Peccato che, anziché colpire la Russia, le sanzioni danneggiavano soprattutto l’export italiano e in particolare quello del Nord, che in Russia valeva milioni di euro. Così molti imprenditori, già messi in ginocchio dalla crisi, fregati dall’euro e minacciati da Equitalia, si erano ritrovati col cruccio di avere molto meno lavoro. Grazie a Bruxelles!
Portai questi argomenti in Russia, accompagnato da pochi fedelissimi, e fui piacevolmente impressionato dalla sensazione di ordine e pulizia che si poteva respirare, per esempio, nella metropolitana di Mosca. Un vero museo, di una bellezza incredibile. Purtroppo non feci in tempo, causa vari appuntamenti, a godermi le bellezze della città con la spensieratezza del turista, ma fu davvero avvincente quando riuscii ad assistere a una seduta del Parlamento russo. Appena si accorsero di me, il presidente dell’assemblea (l’equivalente della nostra Boldrini, sic!) disse: “Il parlamentare italiano Salvini della Lega è venuto ad assistere ai lavori” e scattò un applauso spontaneo e caloroso di tutto l’emiciclo. Fu un’emozione indescrivibile.
Nel 2015 poi l’incontro con il presidente Putin, in un albergo di Milano, davanti a un caffè. Il presidente era perfettamente al corrente dei problemi italiani, dall’immigrazione alle tasse, e io ebbi modo di ribadire le posizioni della Lega: “Altro che sanzioni! Tra Italia e Russia ci vorrebbe un ponte! Io non credo nei blocchi e penso che il ruolo stesso della NATO sia da ridiscutere. Presidente, la ammiro per le idee chiare, la fermezza, il coraggio e una visione della società basata su valori che condivido”. Non potevo dimenticare che proprio Putin era uno dei più fieri oppositori dell’estremismo islamico. Lui mi ringraziò per le belle parole a favore di Mosca, ma devo ammettere che non c’è mai stata persona in vita mia – né Berlusconi né Mattarella o Renzi – capace di mettermi in soggezione come Putin. Il suo modo di fare, la sua voce ferma, la sua stretta di mano: tutto confermava che mi trovavo di fronte a un vero leader.
Guarda caso, dopo il faccia a faccia con Putin e le mie parole a favore di Mosca, si intensificarono i veleni di chi insinuava strani e occulti finanziamenti che da Est stavano rimpinguando le casse del Carroccio. Soldi da Mosca? Li presero i compagni in passato. Conti a Panama? Li hanno altri oggi… La Lega vive del suo, senza “aiutini”, tanto che ero stato costretto a mettere in cassa integrazione i dipendenti di via Bellerio, mentre sia il quotidiano “la Padania” sia TelePadania avevano chiuso i battenti. Per me è stato molto difficile chiudere il quotidiano. Negli ultimi mesi era stato molto ben diretto da Aurora Lussana, ma i debiti e i costi erano troppi. In una situazione di crisi che attanaglia anche i grandi gruppi, era impensabile andare avanti. La prima pagina dell’ultimo numero del 30 novembre 2014 gridava una sola parola: GRAZIE. Resiste Radio Padania, tra mille difficoltà, e per risparmiare sulle spese ho fatto trasferire tutti gli uffici della sede di via Bellerio in una sola ala dell’edificio, così da poter risparmiare anche su luce e riscaldamento. Altro che rubli! L’unica cosa che ricevetti da Putin fu un bell’orologio, e la conferma di una visione comune del futuro. Stop.
Dopo il faccia a faccia con Putin sono andato altre volte a Mosca, per approfondire i rapporti e cercare di aiutare altre imprese italiane, pronte a lavorare con la Russia nonostante le sanzioni. In più, fare asse con l’Est è strategico perché Putin ha dimostrato di saper prendere in mano il problema ISIS con più lucidità e prontezza di quanto non siano stati capaci di fare gli americani con Obama, secondo me il peggior presidente USA della storia.
[…] Un Paese serio si assume il rischio di essere protagonista e mette al centro della politica estera i propri interessi, e non quelli di chi ci vorrebbe tutti più poveri. Che cosa significa tutto questo in concreto? Prima di tutto riaprire immediatamente i rapporti con la Russia, non solo rottamando le sanzioni che danneggiano soltanto noi (più di quattro miliardi di euro di mancate esportazioni di prodotti italiani) ma rafforzando le partnership a tutti i livelli: dalle aziende alla cultura»
(M. Salvini, Secondo Matteo. Follia e coraggio per cambiare il Paese, Rizzoli, Milano, 2016, p. 136-138, 141)

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