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Il discorso di Trump a Davos: la globalizzazione è finita?

Il discorso di Trump al Forum economico di Davos, nonostante gli annunci di fuoco e fiamme da parte dei media, è rimasto nei limiti istituzionali che un Presidente del genere può permettersi: il che significa che il Donald, senza colpi di scena o sparate colossali, ha archiviato la globalizzazione, o per meglio dire ha fatto intendere che la nazione americana non è più interessata a questo tipo di progetto.

Tuttavia, essendo la cosiddetta “globalizzazione” nient’altro che una “americanizzazione”, senza gli Stati Uniti è impossibile portarla avanti: a quanto pare persino gli animatori del Forum di Davos se ne sono resi conto, se dopo la ridicola sceneggiata dell’anno scorso, in cui avevano ingenuamente riposto le loro “speranze” nel cinese Xi Jinping, quest’anno sono dovuti tornare a Canossa, accogliendo Donald l’Apostata come salvatore dell’economia mondiale.

È stato senza dubbio un discorso incisivo, da vero Zio Sam: nel preambolo Trump ha rilanciato l’idea di American Dream come “sogno di avere un bel lavoro, una casa sicura e una vita migliore per i propri figli”, collegando l’operato della sua amministrazione al rilancio di tale sogno, attraverso una crescita immediata e la creazione di 2 milioni e mezzo di posti di lavoro. In particolare questa azione di risanamento si è rivolta verso le piccole imprese («small business optimism is at an all-time high») e ha consentito anche un drastico abbassamento del livello disoccupazione tra gli afro-americani, gli appartenenti della comunità ispanica e la popolazione femminile.

«Il mondo sta assistendo alla rinascita di un’America forte e prospera», ha annunciato Trump, sostanzialmente fondando il motore dei suoi successi nella contrapposizione tra mondialismo ed “eccezionalismo”, ovvero tra “burocrati non eletti” e imprenditori, tra élitee classe media; in ultima analisi, tra finanza e lavoro.

Non è difficile leggere nella reprimenda contro gli unelected bureaucrats una polemica contro l’Unione Europea, uno degli avversari ideali nella guerra commerciale inaugurata con l’insediamento del nuovo Presidente americano. Ancora più esplicito (seppur sempre all’interno dello steccato d correttezza istituzionale e politica) l’attacco alla Cina e agli altri concorrenti asiatici:

«Non possiamo mantenere scambi commerciali liberi e aperti se alcuni paesi sfruttano questo sistema a scapito di altri. Sosteniamo il free trade nella misura in cui esso sia equo e reciproco, perché nella lunga distanza il commercio sleale mina l’interesse di tutti. Gli Stati Uniti non chiuderanno più un occhio nei confronti delle pratiche economiche sleali, incluso il furto di proprietà intellettuale, i sussidi industriali e una pervasiva pianificazione economica guidata dallo Stato. Questi e altri comportamenti fraudolenti stanno distorcendo i mercati globali e danneggiando aziende e lavoratori non solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo».

Altrettanto forte il messaggio sulla “sicurezza energetica”, in chiave evidentemente anti-russa (ma in definitiva sempre anti-europea, poiché è soprattutto una questione di zone d’influenza delle grandi potenze): «No country should be held hostage to a single provider of energy».

Infine, la parte a mio parere più importante, che ribalta un intero paradigma economico, è l’esaltazione del programma di taglio delle tasse come mezzo per rendere “più competitivi” gli Stati Uniti. Finisce in soffitta dunque anche l’ossessione che la “competizione” debba essere solo al ribasso: finalmente l’economia può evadere dall’angusto recinto in cui era stata rinchiusa, per “riveder le stelle”.

La speranza è che anche le altre “nazioni libere e sovrane” a cui si è rivolto Trump capiscano l’antifona e smettano di massacrare i propri lavoratori e le proprie classi medie in nome di un’ideologia che ha fatto il suo tempo. La politica mondiale ha preso un nuovo corso e non è detto che esso sia così disprezzabile come taluni potentati economico-mediatici vorrebbero far credere: quel che è certo che un Presidente che elogia i lavoratori della propria nazione come “i migliori al mondo” («We have the best workers in the world») non si sentiva da tempo. Sarà populista, sarà demagogico, ma ogni tanto ci vuole.

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