«Dopo cinquant’anni la Chiesa è arrivata a un punto di avvitamento finale e ultimo, in un magistero de-dogmatizzato che la rende sempre più irriconoscibile. È una situazione insostenibile: non può durare più a lungo. Si provi dunque il Papa, se ci riesce, con i verbi “forti” giuridici e con il plurale maiestatico pontificale necessari in tali casi (“Noi stabiliamo, decretiamo e dichiariamo”, Nos statuimus, sancimus et declaramus), a dogmatizzare una qualsiasi delle inaccettabili e fellonesche novità di cui vuol riempire la Chiesa: essendo il dogma infallibile, portando sopra il fuoco del dogma i suoi sogni, la Chiesa sarà infallibilmente garantita della perfetta e adamantina bontà delle decisioni così enunciate. Ma se il Papa non riuscirà a enunciarle, tali sognanti novità – e non vi riuscirà punto –, vuol dire che esse, come si sa, erano false, e l’infallibile verità del dogma, anche inmoribus, le ha smascherate».
Partiamo dalle sacrosante osservazioni del prof. Enrico Maria Radaelli in una intervista a corredo del suo volume La Chiesa ribaltata (2014), che chiamano in causa il dogma come convitato di pietra di un magistero, quello bergogliano, all’apparenza così “progressista” e “all’avanguardia”; il fatto che nulla, ma proprio nulla, di quanto l’attuale Pontefice va ripetendo da oltre un lustro “a tutta pagina” sia suscettibile di confluire nella forma che la Chiesa si è data per esprimere la verità (la dogmatizzazione, appunto), crea non solo un angosciante vuoto di potere, ma soprattutto un vuoto di senso.
Sembra inevitabile che un (non-)metodo del genere alla lunga possa condurre allo scisma: eppure ci sarebbe tanto “lavoro” da fare in tal senso, a cominciare per esempio dal discusso dogma di Maria Corredentrice e Mediatrice di tutte le grazie, il “Quinto Dogma” del quale si parla da tempo. Avevo notato nei primi giorni di bergoglismo che, nonostante il novello Papa assomigliasse al personaggio di un romanzo distopico, la sua decisione di recarsi a Santa Maria Maggiore per onorare la più importante Icona mariana di Roma, la Salus populi romani, pareva di buon auspicio.
Se il Fato (non scomodiamo la Provvidenza) fosse stato più clemente, avremmo potuto assistere a tanti capolavori teologico-politici anche in nome del fatidico “aggiornamento”: il caso del Quinto Dogma mi pare particolarmente adatto a illustrare ciò che intendo, perché da una parte avrebbe creato sì una “rottura” col pontificato di Benedetto XVI, da sempre contrario tanto da aver ignorato anche l’appello di cinque cardinali («La formula “Corredentrice” si allontana troppo dal linguaggio delle Scritture e dei Padri della Chiesa; e può perciò produrre degli equivoci»); dall’altra tuttavia avrebbe rappresentato una ripresa della “continuità” con Giovanni Paolo II (che utilizzò formule come “Corredentrice dell’umanità” e “Cooperatrice della Redenzione” in diverse occasioni, vedi le udienze generali del settembre 1982 e dell’aprile 1997 e l’Angelus per la Domenica delle Palme del 1985) e Paolo VI («Nella sua immacolata concezione umana, stupendamente corrispondente alla misteriosa concezione della mente divina della creatura regina del mondo», Omelia per la Natività di Maria, 8 settembre 1964), fino a risalire al Papa della “questione sociale”, Leone XIII («La Vergine Immacolata, prescelta ad essere Madre di Dio, e per ciò stesso fatta corredentrice del genere umano…», enciclica Supremi Apostolatus Officio, 1883).
Dopodiché si sarebbe potuto declinare la questione in tutti i modi possibili: un “superamento” del Medio Evo ratzingeriano, una “apertura” al femminismo o alla femminilità tout court, e tanti altri titoloni per i giornali; ma oltre alla forma del dogma in tal caso avremmo avuto comunque anche la sostanza, persino dal punto di vista soprannaturale (ricordiamo le apparizioni di Amsterdam approvate ufficialmente nel 2002 e conosciute anche come “Apparizioni della Signora di tutti i popoli“).
Al contrario, nulla di tutto questo è stato fatto (e neanche pensato): l’andazzo è stato quello di ignorare per anni la reale natura della Chiesa come istituzione, fingendo che non esistessero alcuni “percorsi obbligati” da seguire pena la stessa dissoluzione della Catholica. Non è quindi il “progressismo” in sé che si vuole qui contestare, quanto il fatto che esso venga utilizzato come mezzo o mascheratura della pura e semplice distruzione (o auto-demolizione): però questo è quanto sta accadendo, soprattutto nel momento in cui la dialettica tra Dogma e Anti-Dogma rende il cattolicesimo un vero e proprio “motore di dissoluzione”.
Come a dire che attualmente la fedeltà al magistero bergogliano possa coincidere con l’apostasia assoluta, ovvero che egli abbia reso possibile la contraddizione vivente di un cristianesimo che può essere cristiano solo nella misura in cui non lo è, o non vuole (o può) più esserlo. L’identità cattolica si configura quindi come una sorta di religione dell’anti-religiosità, una forza che spazza via riti, miti, liturgie, credi, preghiere e, ancora, dogmi. Da tale prospettiva è tanto interessante quanto sconvolgente un recente contributo del filosofo Marco Vannini, già autore di una surreale Inchiesta su Maria col grande e irreprensibile Corrado Augias e di un volume dal titolo decisamente allusivo (Prego Dio che mi liberi da Dio, 2010), il quale ha dato alle stampe una specie di piccola summa (a)teologica: il libello All’ultimo papa. Lettere sull’amore, la grazia e la libertà (2015).
Lo spunto è l’abdicazione di Benedetto XVI, ma il bersaglio è quella «religione ridotta a mitologia, cui è ignota l’esperienza dello spirito», quella fede «che si fonda su miti […] sicuramente falsi»: il cattolicesimo (ça va sans dire). Più che di Quinto Dogma, qui dovremmo parlare di Dogma-Zero, perché la furia iconoclasta di Vannini si spinge fino alle radici della “esteriorità” cristiana, giungendo ad attaccare il “legalismo biblico” con toni consentiti solo a un polemista anticattolico (per chiunque altro, persino per Papa Francesco, si sarebbe parlato di antisemitismo o almeno giudeofobia). Una riproposizione quasi sfrontata dell’antica paranoia sull’opposizione tra Legge e Carità (anzi “Amore”), col secondo polo naturalmente impiegato in funzione di “solvente” del primo: l’amore che “risana” la ferita tra creatura, creato e Creatore aperta dall’irruzione del patto abramitico, foriero di intolleranza e oscurantismo.
Questo è dunque lo scenario in cui si muove l’intellighenzia che ha propiziato la “rivoluzione” (un “Concilio Vaticano III” informale proprio perché possa decidere sullo stato d’eccezione): anche invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Possiamo infatti considerare il Vannini di cui sopra un caso sui generis, poiché le accuse di “trionfalismo” e “materialità” che egli fa risalire all’ebraismo generalmente sono invece addebitate ai “residui di paganesimo” conservati e tramandati dal clero romano. Per esempio, Gabriella Caramore (conduttrice della trasmissione radiofonica “Uomini e Profeti” e anche saggista molto ascoltata negli ambienti ecclesiali “che contano”), proponendo una rilettura giudaizzante del cristianesimo adotta come polo “dissolutore” non l’Amore o la Carità, ma la Profezia: anche qui, insomma, il proposito è sempre quello di mettere in competizione la Legge (il Dogma) con ciò che è in grado di annullarla. Il riferimento costante al “profetismo” nell’opera della conduttrice è perciò un espediente per portare avanti i propositi immanentistici e relativistici nei confronti del cristianesimo: la “profezia” è un’altra modalità in cui si configura la “religione dell’anti-religione”, un ulteriore tentativo di sfuggire alla necessità di dogmatizzazione (alla fin fine si torna sempre al discorso iniziale di Radaelli).
Un altro esempio interessante di tale “proprietà commutativa” è rappresentato dal teologo greco-ortodosso (che di “ortodosso” in realtà ha davvero poco) Christos Yannaras, propagandato in Italia dalle edizioni Qiqajon della “Comunità di Bose” (ancora l’intellighenzia a cui accennavamo), citato persino nelle meditazioni della Via Crucis al Colosseo del 2017 dalla biblista francese Anne-Marie Pelletier (per fortuna non nel passaggio in cui definisce la transustanziazione “un miracolo da fachiri”!). Nella sua accezione, i “residui di paganesimo” diventano fermenti di una grecità che annulla ogni distinzione tra il bene e il male e traghetta il cristianesimo direttamente nelle acque della pura amoralità. Abbiamo discusso spesso di questa idea di graecitas spuria e contraffatta, ritrovandola in numerosi autori (da Simon Weil a Cesare Pavese): per Yannaras essa ha lo stesso valore dell’Amore in Vannini e della Profezia in Caramore, anche se egli forse si addentra ancor più nel “profondo”, presentando senza peli sulla lingua la fede cristiana come distruttrice di qualsiasi fede, religione, etica, istituzione, tradizione ecc (la lettura del suo Contro la religione, risalente al 2006 ma tradotto da Qiqajon nel 2012, è un’esperienza ai limiti della psichedelia).
Ricapitolando: lo scontro nel cattolicesimo contemporaneo (nonché nel cristianesimo tout court) non è tra “progressisti” e “conservatori”, ma tra Dogma e Anti-Dogma. Volendo infatti concedere tutto al settore “sinistro” della Chiesa, potremmo addirittura giungere ad affermare che persino su questioni spinosissime come quelle del sacerdozio femminile o del celibato ecclesiastico si potrebbe trovare un terreno di incontro o riconciliazione nell’ambito delle strutture tradizionali: tuttavia, come abbiamo dimostrato indirettamente con numerosi esempi, il vero senso di talune “battaglie” non è tanto quello di trionfare sulla breve distanza, quanto di stravolgere completamente l’essenza del cattolicesimo per farne araldo di tutt’altra “religione”, un mezzo per pervenire a una forma perfetta di immanentismo e nichilismo nella maniera meno intellettualmente onesta possibile.
Quella di Radaelli è la versione tradizionalista del “Si acceleri l’opera Sua , affinchè possiamo vederla” , la chiamata ultima che rimanda all’appello ricorrente dei sedevacantisti nei confronti dei conservatori (vero obiettivo dell’illustre allievo di Amerio, impancato nella dimostrazione dell’eresia di Ratzinger sulla base di “introduzione al Cristianesimo” ). Non si spiega altrimenti il rimando ai 50 anni. Per assurdo se fosse più attento alle operazioni bergogliane si renderebbe conto che la pretesa di “dogmatizzare il progressismo” o il “discernimento” è già stata posta dal pontefice argentino in un crescendo di intensità. Dalla nota a piè di pagina nell’Esortazione Apostolica “Amoris Laetitia” , alla pubblicazione – espressamente richiesta – negli Acta delle considerazioni sul fine vita, fino all’annunciato testo finale del Sinodo dei Giovani che deve essere considerato magistero , secondo le sue disposizioni. Ma il vero punto che chiama in causa il dogma e lo supera per certi versi è la proclamazione di santità sui pontificati precedenti , nonostante alcune palesi imperferzioni. Si può dire che il mix di errori palesi portati agli onori degli altari , dunque utilizzando il dogma dell’infallibilità , sta creando un coacervo inestricabile di risposte non date , tenute insieme dal collante della proclamazione.
Quindi il dogma , che è garanzia di libertà per il fedele , perchè sottratto alla maggioranze contingenti , viene sfruttato per cementare un processo che è del tutto orizzontale , tra sinodi e votazioni.
Più che altro confonde infallibilità pontificia con puro e semplice decisionismo, dunque per certi versi sta usando un dogma per annullare tutti gli altri, ma ovviamente costruisce sulla sabbia (basta vedere come è stato appena scaricato dai media per le sue frasi sull’aborto di qualche settimana fa)