Nelle ultime elezioni americane la “questione islamica” sembra aver goduto di una qualche rilevanza non solo per la situazione internazionale, ma anche in una prospettiva prettamente interna, dove il terreno di scontro è stato rappresentato soprattutto dal Michigan, che oltre a esser stato fino all’ultimo in “bilico” (alla fine ha vinto Trump per un soffio), ha visto un corteggiamento senza precedenti della numerosa comunità islamica locale, sia dalla parte della Harris, la quale in uno degli ultimi comizi aveva promesso il riconoscimento della Palestina, che addirittura del candidato repubblicano, fiero di essersi fatto ritrarre con imam e leader delle comunità musulmane dell’area rivendicandone l’endorsement.
Partiamo da un dato: l’enfasi sul “voto islamico” negli Stati Uniti è una delle tante operazioni di propaganda dei democratici, che da una parte necessitano di avere argomenti per dipingere Trump come un razzista (e dunque vorrebbero costringere a insultare gli islamici) e dall’altra hanno bisogno di presentare a loro stessi -e al mondo- l’immagine di un’America talmente “diversa” dal punto di vista etnico e culturale da obbligare un candidato alla Presidenza a fare i conti con qualsiasi minoranza possibile.
In verità il voto dei musulmani non sarebbe stato decisivo nemmeno se avessero optato in massa per Kamala, figuriamoci nel momento in cui, messe da parte le bufale del multiculturalismo, è saltato fuori che la maggioranza degli arabi americani ha… scelto Trump!
Nei giorni scorsi Al Jazeera ha pubblicato una bella inchiesta sulle preferenze dei musulmani statunitensi: il quadro che ne era emerso era di un ambiente piuttosto incline ad affidarsi al tycoon non solo in segno di “protesta” verso l’immobilismo democratico nei confronti di Israele, ma anche per la tentazione di confidare nel decisionismo trumpiano come leva in grado di mettere fine, in maniera anche inaspettata, al conflitto a Gaza e in Libano.
Per esempio, l’imprenditrice di origine yemenita Samraa Luqman ha presentato la sua scelta di votare Trump nei termini di una “scommessa”, in particolare “sull’1% di possibilità che egli riuscirà a fermare il genocidio“, proprio in base all’istrionismo e l’imprevedibilità che il Nostro ha dimostrato alle prese con altri conflitti globali.
Altri rappresentanti del “blocco repubblicano” arabo del Michigan hanno espresso una simile fiducia verso le promesse di pace del candidato: non solo uomini d’affari e religiosi, ma anche esponenti della classe media, come un ristoratore di Dearborn, anch’egli yemenita, che ha appeso all’entrata del suo locale un cartello in arabo con scritto “Per la pace votate Trump”.
A capitanare la cordata islamico-trumpiana del Michigan è stato del resto il sindaco di Dearborn Heights Bill Bazzi, nato nel sud del Libano, che ha indicato ad Al Jazeera come fattore scatenante del suo sostegno “senza sé e senza ma” a Donald la partecipazione alla campagna elettorale della Harris di Liz Cheney, la figlia dell’ex vicepresidente Dick, uno dei neocon architetti della fallimentare “guerra al terrore”, basata sull’altrettanto iniquo “scontro di civiltà”.
A livello internazionale, invece, ammetto di aver trovato interessanti un paio di articoli de “il manifesto” del 5 novembre 2024 dedicati alla Palestina e all’Iran, i quali riportano opinioni di prima mano sia della politologa palestinese Hamada Jaber che del Presidente della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teheran Ebrahim Motaghi.
La prima sostiene che molti palestinesi abbiano assunto una posizione filo-trumpiana “all’apparenza illogica” proprio in base al “modo di fare” del repubblicano, che con le sue “reazioni istintive” potrebbe assumere decisioni “scomode” nei confronti di Israele.
Per quanto riguarda invece il professor Motaghi, egli sostiene apertamente che la “propensione al rischio” di Trump potrebbe spingerlo a rivedere un accordo con l’Iran con un approccio pragmatico basato soprattutto sulla sicurezza regionale del Medio Oriente.
Come potete osservare, si trattano sostanzialmente delle stesse ragioni degli arabi del Michigan, peraltro per la maggior parte di origine libanese, palestinese e siriana (oltre che yemenita). A questo punto, l’auspicio è che, pur di contrastare l’abbraccio mortale della lobby sionista sul potere americano, da quelle parti sorga anche una sorta di informale e disorganizzata “lobby sciita”.