Negli ultimi anni le democrazie occidentali hanno conosciuto un’allarmante radicalizzazione “di genere” nelle urne elettorali: in Germania come in Austria o in Svezia (nonché negli Stati Uniti) la nuova tendenza è donne a sinistra, maschi a destra. Esistono naturalmente varie motivazioni storiche a giustificazione dell’orientamento “progressista” delle votanti di sesso femminile, che hanno perlopiù a che fare con con le conquiste politiche e sociali ottenute nel secolo scorso, come il suffragio universale, l’emancipazione economica e la liberazione sessuale (cfr. L. Edlund & R. Pande, Why Have Women Become Left-Wing?, “The Quarterly Journal of Economics”, agosto 2002).
Tuttavia, sulla breve distanza, è soprattutto con l’acuirsi della crisi migratoria che le élite hanno iniziato a puntare sempre più palesemente sulla stereotipizzazione della femminilità a scopi propagandistici: la strumentalizzazione politica degli istinti psicologici e biologici della donna ha creato un nuovo tipo di elettrice, la cui militanza si esprime sostanzialmente nell’ideale di una società “aperta”, “accogliente”, “tollerante”, “materna” eccetera.
L’esempio più recente di questa Femina nova è quello di una studentessa che è riuscita a far bloccare un aereo con a bordo un immigrato afghano espulso dalla Svezia per aver massacrato di botte la moglie e i figli (cfr. D. Murray, Elin Ersson’s “citizen-activism” comes at a heavy price, “The Spectator”, 31 luglio 2018). La giovane ha voluto inscenare la sua protesta nonostante non sapesse nemmeno di cosa fosse accusato l’uomo: nell’occasione è stato un bene (almeno per lei) che non abbia dovuto averci a che fare in un vicolo buio mentre rientrava a casa; purtroppo altre manifestazioni di “altruismo patologico” (come lo definisce il polemista conservatore britannico Paul Joseph Watson) si sono concluse in maniera meno “pacifica”.
Pensiamo, per esempio, a Maria Ladenburger, diciannovenne tedesca stuprata e affogata nell’ottobre 2016 da un rifugiato afghano dopo una festa; a Sophie Lösche, attivista dell’Spd violentata e bruciata viva da un camionista marocchino a cui aveva chiesto un passaggio; a Mollie Tibbetts, studentessa dello Iowa assassinata da un immigrato messicano mentre faceva jogging. Ho citato solo questi nomi tra i tanti perché allo stato attuale sono la rappresentazione perfetta di cosa ha comportato l’accettazione dei presupposti “valori” di una altrettanto presupposta “femminilità” come criteri con cui governare una comunità.
In tutti e tre casi, infatti, le famiglie delle vittime hanno reagito in maniera sconcertante, accettando la strumentalizzazione “da sinistra” per prevenire quella “da destra”: il padre della Ladenburger, alto funzionario dell’Unione Europea, ha invitato coloro i quali volessero onorare il ricordo della figlia a fare donazioni ad associazioni che si occupano di accoglienza; la famiglia della militante dei giovani socialdemocratici ha trasformato il proprio lutto in una kermesse anti-razzista (che in verità ha lasciato piuttosto indifferenti gli stessi compagni di partito); infine, l’omicidio più recente, quello della studentessa americana, pur raccontando effettivamente una vicenda più complessa (la strumentalizzazione è arrivata prima da Donald Trump, che ha usato la morte di Mollie Tibbetts per dimostrazione la giustezza delle sue politiche sull’immigrazione),
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 22 agosto 2018
ha comunque comportato la solita surreale reazione da parte della famiglia: dopo aver diramato un appello contro la “mascolinità tossica” (dunque addossando l’accusa collettiva dagli immigrati messicani agli uomini di tutto il mondo), il padre ha poi pubblicato un articolo di protesta, elogiando la comunità ispanica “per il suo contributo all’arazzeria americana” e per “il cibo adorabile”…
Persino chi sopravvive a uno stupro da parte di un immigrato nell’Occidente contemporaneo non ha comunque un destino migliore: ricordiamo la storia di quella militante di origini turche dei giovani della Linke che, dopo aver mentito alla polizia e alla stampa sulla nazionalità dei suoi stupratori per timore di offrire un argomento ai “razzisti”, si trovò costretta a confessare tutto quando si imbatté in uno degli aggressori (un rifugiato siriano) al congresso del suo partito; dopo l’inevitabile baraonda mediatica, la malcapitata pubblicò sul suo profilo Facebook una assurda “lettera di scuse” rivolta ai suoi aggressori (traduzione qui).
Per parafrasare Flaiano, la situazione politica in Europa è grave ma non seria. Alla luce dei pietosi episodi appena evocati, ci si domanda se non sia il caso di un ripensamento più generale del rapporto tra “femminilità” e politica. Si parla, ovviamente, sempre di stereotipi: i “valori” con cui le donne vengono convinte da una parte a sventolare i cartelli con su scritto “Refugees Welcome” e dall’altra a gettare ogni responsabilità sulle fragili spalle degli autoctoni (“patriarcato”, “maschilismo diffuso”, “mascolinità tossica”) quando un branco di immigrati le tratta come bottino di guerra, sono tutt’altro che rappresentativi della totalità delle donne.
Va tuttavia ammesso, solo per onestà intellettuale, che esistono nella psiche femminile (come d’altronde in quella maschile) dei lati oscuri facilmente manipolabili dai potenti di turno: parliamo, per esempio, dell’attrazione verso l’aggressività, della sottomissione espressa in forma di conformismo, della remissività mascherata da tolleranza. Quando questa miscela di ideologia e biologia degenera nella pura e semplice auto-distruzione, possiamo davvero parlare di “femminilità tossica”: ma se per reprimere le fondamentali conquiste dell’utopia multiculturale declinata “al femminile” (violenza, criminalità e terrorismo), i “maschi” devono istituire uno Stato di polizia, allora forse è giunto il momento di disintossicarsi.
In primo luogo, ridando al “Padre” la possibilità di incazzarsi se uno straniero gli uccide la figlia: anche se il soggetto è un miserabile sinistrorso senza alcuna dignità (morale o politica), timoroso che un’oncia di testosterone possa riportare Hitler al potere, almeno prenda esempio da una mamma pecora che difende i suoi cuccioli dai lupi. La mamma pecora non elogia il pelo del lupo, non invita le altre pecore a donare agnelli ai rifugi dei lupi, non piagnucola sul “razzismo lupofobico”. Reagisce e basta.
In secondo luogo, impedendo che i “valori femminili” si trasformino in un velo pietoso sulla mancanza di valori che contraddistinguono la nostra società. Bisogna rifiutare la femminilizzazione coatta della politica, anche perché alla fin fine danneggia soprattutto le donne: pensiamo soltanto alla triste parabola del movimento #MeToo, che dopo aver rinfocolato il mito della femmina “vittima eterna” del maschio bianco eterosessuale (ricordiamo che Tariq Ramadan è stato difeso dai media mainstream!) si è concluso in una “notte rosa dei lunghi coltelli”.
La schizofrenia, l’ipocrisia e la doppia morale non aiutano il dibattito, semmai favoriscono quella tribalizzazione stigmatizzata al principio: donne a sinistra, maschi a destra, in un rapporto inversamente proporzionale dove, per le tendenze autodistruttive di cui sopra, a trionfare sarà comunque il temutissimo “patriarcato” (in una forma o nell’altra).