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Ecumenismo per iniziati

Si è discusso da queste parti della recente “islamofobia” di Roberto Calasso e dello strana forma di ecumenismo (cristiano-buddhista o cristiano-pagano) che viene proposto dal patrono di Adelphi in salsa anti-maomettana. Per citare un lettore, il sincretismo tra Oriente (Buddha) e Occidente (Cristianesimo “puro”) che Calasso ha assorbito da alcune pagine di Lévi-Strauss se ai suoi occhi appare come un mix di «divinità irate, pali sacrificali, amplessi tantrici prolungantisi per eoni, nubi della non-conoscenza e A Dio per la parete nord», nella vita reale assomiglierebbe più a uno scenario da retrobottega esoterico, con «Giuseppe De Lorenzo e le congreghe di vegetariani, Capitini, le vecchine teosofiche che si raccontano le vite precedenti, il vescovo Leadbeater con le pudenda in mano».

Continuando sulla stessa linea, ci sentiamo in dovere di chiamare in causa un altro autore fagocitato recentemente da Adelphi: Ananda K. Coomaraswamy. Lo storico dell’arte cingalese (considerato “eminente orientalista” da Aldous Huxley), nel saggio “Molti sentieri per un’unica vetta” (1943), tradotto da Rusconi nella raccolta Sapienza orientale e cultura occidentale (Milano, 1998, pp. 55-65), offrì una suggestiva e inedita idea di “ecumenismo” in grado di allietare sia i palati tradizionalisti che quelli progressisti:

«Il cristiano moderno, che crede il mondo sua parrocchia, si trova di fronte alla dura necessità di farsi egli stesso cittadino del mondo; egli è invitato a partecipare a un symposium e a un convivium […] come ospite fra molti altri. […] È inevitabile domandarsi a questo punto se un cristiano, irremovibilmente convinto che la sua fede è l’unica vera, possa in coscienza permettersi di illustrare una religione diversa dalla sua, sapendo di non poterlo fare con onestà. […] Non c’è ragione perché oggi un cristiano dotato di una struttura intellettuale adeguata non debba imparare a scoprire e a rallegrarsi di scoprire, per esempio nelle dottrine dei Veda, del sufismo, del taoismo o degli indiani d’America, prove estrinseche e probabili della verità che egli soggettivamente conosce. […] L’obiettivo finale cui tendiamo è una definitiva “riunione delle Chiese” […]: occorre instaurare alleanze attive – per esempio tra cristianesimo e induismo o islamismo, sulla base dell’accettazione comune di alcuni principi fondamentali in vista di una loro concorde ed effettiva applicazione ai campi contingenti dell’arte (artigianato) e della prudenza […]. Dal vostro concetto di “vocazione” dovete eliminare ogni nozione di “missione civilizzatrice” […]. L’unica eresia reale del cristianesimo moderno agli occhi dei credenti delle altre fedi, è la sua pretesa di avere l’esclusiva della verità […]. Io seguo la religione dell’Amore, […] l’essere autenticamente religiosi non dipende dalla forma della nostra religione ma da noi stessi e dalla grazia».

La conclusione di tali considerazioni che non sfigurerebbero ormai nemmeno sulla bocca di un Pontefice, è però piuttosto “velenosa”: «La vostra civiltà “cristiana” sta concludendosi in un disastro e voi siete così sfrontata da offrirla agli altri?». No, per carità: del resto il Pontefice che abbiamo appena evocato è lo stesso che ha paragonato Gesù all’Isis per stigmatizzare “l’idea di conquista” presente in tutte le religioni. Anche il buon Ananda è piuttosto irenico sul punto:

«La verità si trova quando si riconosce che essa non appartiene ad alcuna setta ma è libera e universale come la bontà di Dio, ed è comune a tutte le denominazione e a tutte le nazioni così come l’aria e la luce di questo mondo» (p. 73, n. 9).

Sembra “buonismo teologico”, ma in realtà è un programma più sottile, di allunamento reciproco delle religioni. Infatti, nonostante le rodomontate di Bergoglio, la paranoia del “dialogo” che ha guidato la Chiesa degli ultimi decenni ha avuto anch’essa come scopo recondito il proselitismo: perciò, nonostante Coomaraswamy usi la stessa retorica di un Hans Küng, il fine a cui tende non è ovviamente la propaganda della fede cristiana, e neppure la pace mondiale, se non nella forma di una unione di tutti i culti in una religione primordiale e trascendentale. Come infatti afferma nelle ultime righe del suo saggio:

«Il discepolo […] si accorgerà con stupore che la sua comprensione della dottrina cristiana può essere favorita dallo scoprire che esistono altre dottrine analoghe, anche se fissate in un linguaggi diverso e quindi in concetti che possono sembrargli strani o grotteschi. […] Il discepolo scoprirà […] legami tra la filosofia dei cannibali e la dottrina dell’Eucaristia e dell’offerta sacrificale del corpo […]».

Il cuore di un ecumenismo “iniziatico” è proprio questo: la cannibalizzazione delle fedi (a quanto pare non solo in senso metaforico!). Ritrovo un’ispirazione simile in un articolo datato 1976 e a firma Giovanni D’Aloe per la rivista “Metapolitica” di Silvano Panunzio (Lefebvre, il Concilio e la politica della Chiesa), nella quale si sostiene che l’enciclica Lumen Gentium, riconoscendo le altre tradizioni religiose («per ora limitatamente all’ebraica e alla mussulmana: ma si tratta di una porta aperta anche al buddismo e all’induismo, quando saranno meglio conosciuti nei seminari»), rappresenti «una conquista irrinunciabile per chiunque creda nella Tradizione universale», e che il destino del cattolicesimo da tale prospettiva sarà di conseguenza “catacombale”.

Per ritornare allo scenario immaginato all’inizio del lettore, alla sequela di personaggi da egli citati senza alcun riguardo per l’etichetta iniziatica vorremmo aggiungere il nome di Franco Battiato, non solo per una inquietante somiglianza con il Coomaraswamy di cui sopra (vedi in fondo), ma anche per la perfetta attinenza con un milieu che ha sempre tentato di escluderlo più per snobismo che altro. Infatti non si può dire che il cantautore siciliano non abbia rappresentato l’espressione artistica più riuscita di tutto il bric-à-brac esoterico-tradizionalista proposto da Adelphi & co. nel corso di questi anni. Uno dei primi a riconoscerlo, in tempi non sospetti, fu un altro cantautore, Gianfranco Manfredi, del quale riportiamo la stroncatura comparsa sul supplemento “Tuttolibri” de “La Stampa” (Sull’arca di Battiato c’è la cultura della nuova destra, 11 dicembre 1982), che vale anche come nostro “veleno nella coda”.

«Impossibile, di fronte al nuovo LP di Battiato, fare un discorso “equilibrato”: si sente di doverne dire tutto il bene e insieme tutto il male possibili.
“Tutto il bene”: è un prodotto tecnicamente perfetto, di chiarezza cristallina, cosi preciso e individualizzato da poter costituire un modello per tutti i “colleghi”. Modello di cosa? Di un atteggiamento artistico rigoroso. Non serve barcamenarsi sul mercato alla ricerca di scopiazzature in serie di modelli di successo: Battiato mostra l’importanza di lavorare il proprio orto con l’ambizione di tirarne fuori la migliore verdura della regione. Anche se è destinato ad avere schiere di imitatori, insegna ad approfondire il linguaggio personale e distinguersi, dare segnali di differenza non di omologazione e di appiattimento sulla media stanca della produzione discografica nazionale.
Forse manca nell’LP un brano della forza di Centro di gravità permanente, ma c’è una nuova sintesi che sbarazza il campo dal troppi elementi, dalle troppe citazioni affastellate in “La voce del padrone”. È a suo modo anche un disco “a tesi” che vuol fare chiarezza. Chi considerava Battiato un post-moderno, maestro della citazione “al di fuori del contesto” e seminatore ironico di codici non ideologici, dovrà ricredersi: questo disco è un manifesto serissimo.
E veniamo cosi a dire “tutto il male possibile”: proprio perché dai solchi, pezzo dopo pezzo, viene fuori il “Battiato-pensiero”, è bene dire una volta per tutte di che pensiero si tratta. È un vero Bignami di stimabilissima cultura da Nuova Destra, quella che alletta Cacciari e molti altri. Gli ammiccamenti si sprecano: si ritorna a parlare di “chi scappa in Occidente”, degli appelli di “Radio Varsavia”; si mette in prima fila “l’imperialismo degli invasori russi” (davanti a inglesi e americani si intende) (Esodo), si apprezza da veri snob la nuova cultura penitenziale cattolica (Scalo a Grado); si affonda nel narcisismo della propria diversità modellando le proprie fantasie sessuali sulle movenze dei danzatori dervisci: la distinzione del linguaggio sembra voler far dire all’ascoltatore: “Euh! Ma com’è colto il Battiato”.
Anche le canzoni di Giorgio Gaber (con il quale Battiato si affratella) nascondono citazioni di Musil, Adorno, Céline e chi più ne ha più ne metta. Ma Gaber “abbassa il tono”, sceglie di spiegarsi in un linguaggio più basso e didascalico perché la citazione non si senta e ne arrivi invece il contenuto provocatorio vero. Battiato invece tiene alla proprietà del linguaggio colto. È solo una deviazione in corner che vi dica “giù dalla torre gli artisti” perché è proprio come Artista che Battiato si presenta e come un Artista che ci crede al Massimo Grado.
Nello stesso tempo si avverte però un che di professorale, e se vogliamo anche di impiegatizio, in questa cultura esposta come il servizio da tè nel salotto buono. Se Gaber spinge l’acceleratore del paradosso e si paragona a Dio giudicando i vivi e i morti, Battiato si limita a un giochetto di società (Giù dalla torre) che tra l’altro lo avvicina (in questo brano) più a Renato Zero che a Dio. Ma poi, quasi a riscattarsi, torna “in alto” e non ci risparmia la seguente massima: “L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero” (New Frontiers).
Insomma: il nostro ci configura uno scenario da Fine del Mondo, dove moltitudini in coda varcano i confini verso una nuova Arca di Noè. Un’Arca che è una salvezza “colta” preparata dall’educazione di massa. Profeta e pedagogo, altro che post-moderno. Naturalmente per salire a bordo dell’Arca bisognerà fare gli esami. Neanche esami facili dato che dovremo aver letto tutto il catalogo Adelphi e al contempo saper ballare “come le zingare nel deserto coi candelabri in testa”.
Ma se una volta ammessi sull’Arca si scoprisse di esserci imbarcati su un nuovo Titanic? Allora, semisommersi dai flutti e cercando rottami a cui afferrarci, non ci sarà di gran consolazione sapere alla perfezione “come danza il derviscio”. E dalle labbra non ci usciranno canti latini e roboanti cori mitteleuropei, ma semplici, volgari, carnali imprecazioni. E sarà finalmente La voce del burino».

Franco Battiato & Ananda K. Coomaraswamy
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